martedì 21 luglio 2009

02. Scienza o fede?

Nel corso della storia l’uomo si è più volte interrogato sulle proprie origini e ha fornito risposte di natura diversa, che, possiamo dire, hanno attraversato tre fasi storiche: nella prima fase, che va dall’inizio della storia all’affermazione del monoteismo ebraico (VI sec. a.C.), regna incontrastato il pensiero mitico; nella seconda fase, che giunge fino alla Rivoluzione francese, domina il pensiero religioso; nella terza fase, che è in corso, prevale l’approccio scientifico.

Bibbia
In Occidente la risposta mitico-religiosa più nota e diffusa è quella della creazione, che leggiamo nella Bibbia (Gn1-2) e che può essere così riassunta. In principio, Dio crea il cielo e la terra . Appena creata, la terra è ricoperta di vapore e non ospita alcuna forma di vita, finché, un giorno, Dio con del fango plasma l’uomo e gli infonde lo spirito vitale, quindi pianta un giardino, poi, con dell’altro fango, plasma tutte le specie animali e, infine, da una costola dell’uomo, crea la donna. In apparenza, nella Bibbia questi atti creativi avvengono in rapida successione, ma è possibile che lo scrittore sacro non sia stato particolarmente attratto dall’aspetto scientifico della creazione, quanto piuttosto dall’atto creativo in sé, e che, pertanto, abbia trascurato la questione della tempistica cosmologica e si sia unicamente concentrato sulla comparsa dell’uomo sulla terra, che viene collocata dagli ebrei 3760 anni prima di Cristo. E’ possibile, insomma, che lo scrittore sacro abbia voluto semplicemente asserire che la storia dell’uomo inizia con l’atto creativo di Adamo, meno di seimila anni fa.

Scienza
La teoria scientifica è molto diversa nella forma e molto più ricca nei dettagli rispetto alla precedente, anche se non mancano le analogie. Di fronte ad un cosmo apparentemente infinito i primi scienziati ellenici (VI sec. a.C.) non possono far altro che esprimere un sentimento di meraviglia e stupore, insieme ad un disarmante senso d’impotenza, che, tuttavia, non impedisce loro di impegnarsi nella memorabile impresa di avanzare i primi tentativi di spiegazione del mondo, anche se, nel futuro, le loro teorie potranno sembrare assai semplicistiche e prive di fondamento. L’incapacità dell’uomo di spiegare il cosmo gioca a favore delle “teorie” mitico-religiose, che possono continuare a dominare la scena ancora per molto tempo. Nell’Occidente cristiano, gli scienziati non vedono nulla di meglio della Bibbia per spiegare il mondo e la vita, fino alle prime scoperte dell’età moderna, che gettano qualche sprazzo di luce sul buio fitto del mistero e allentano le tenebre dell’ignoranza, creando i presupposti per un deciso cambiamento culturale. Secondo una di queste, la teoria della gravità, elaborata da Newton (1687), le stelle dovrebbero attrarsi tra loro e, infine, collassarsi in un centro gravitazionale comune. Questo assunto viene messo in discussione da Edwin Hubble (1929), il quale scopre che l’universo è in espansione. “Le osservazioni di Hubble suggerirono che doveva esserci stato un tempo, chiamato in seguito il big bang (la grande esplosione), in cui l’universo era infinitesimamente piccolo e infinitamente denso” (HAWKING 1990: 22). La teoria del big bang esclude che l’universo sia eterno, ma, se esso ha avuto un inizio, da dove ha tratto origine? Gli scienziati non lo sanno. Essi concedono la possibilità che sia stato un dio ad avviare il big bang e a creare il cosmo, affidandolo a leggi proprie, anche se non sono in grado di provare la sua esistenza, né di conoscere la sua natura e le ragioni che lo avrebbero indotto all’atto creativo.

Il big bang
Non rientra nelle mie intenzioni di addentrarmi in un’analisi dettagliata e puntuale della storia del mondo, che, nonostante la miriade di pubblicazioni dedicate, nessuno conosce veramente. Il mio proposito è, piuttosto, quello di tracciare, in modo molto schematico e approssimativo, le principali tappe che, secondo la scienza, hanno portato alla formazione del Cosmo e all’affermazione della Vita, a partire dagli organismi più semplici e fino all’homo sapiens, convinto che questo percorso dovrebbe aiutarci nella comprensione dell’individuo. L’inizio della storia del mondo viene collocata dagli scienziati intorno a 15 miliardi di anni fa, allorché avviene il big bang, una sorta di apocalittica deflagrazione, che non si sa se si è prodotta dal nulla o da qualcosa di preesistente. In verità nessuno sa se qualcosa abbia preceduto il big bang, né conosce gli eventi che si sono succeduti nei miliardi di anni successivi. Tutto quello che diremo qui di seguito, dunque, è frutto di ipotesi e supposizioni, che possono essere confutate o corrette in ogni momento da una qualsiasi nuova scoperta scientifica, ma non è pura fantasticheria: è lo stato delle nostre attuali conoscenze, per quanto povero possa sembrare.
Il big bang produce una sterminata nebulosa costituita quasi esclusivamente di idrogeno ed elio, dalla quale, a poco a poco, prendono origine, per condensazione, le stelle e i sistemi planetari ordinati in galassie: il sole si sarebbe formato 5 Gyr fa, la terra mezzo miliardo di anni più tardi. Inizialmente il pianeta è ricoperto di acque oceaniche calde e fumanti (correttamente la Bibbia aveva parlato di “vapore”), una sorta di brodo primordiale, dove cominciano a sintetizzarsi molecole sempre più complesse: polipeptidi, aminoacidi, proteine, polisaccaridi, nucleotidi.

Le prime forme di vita
Intorno a 3,5 Gyr fa, la concentrazione di ossigeno atmosferico è tale da consentire la comparsa delle prime forme di vita, che sono microrganismi unicellulari privi di nucleo o procarioti (batteri, alghe o virus) capaci di riprodursi per duplicazione, generando cioè due individui quasi perfettamente identici. Trascorrono due miliardi di anni prima che compaiano i primi corpuscoli cellulari provvisti di nucleo (eucarioti), che sono caratterizzati da uno “stato diploide”, ossia dalla duplicità dei cromosomi e dei geni, e dal fatto che vivono in modo indipendente l’uno dall’altro: è vano cercare la famiglia in questa fase di sviluppo della vita.
Ancora mezzo miliardo di anni, ed ecco che entrano in scena le prime forme di vita pluricellulari (eucarioti macroscopici e invertebrati), ossia i primi soggetti individuali complessi. Da questo momento il substrato biologico della vita è il DNA, che è contenuto nei cromosomi all’interno del nucleo cellulare, e ciò spiega perché tutte le forme di vita si somigliano. “I cromosomi di tutti gli organismi, dagli infimi batteri alle piante e agli animali più elevati e all’uomo, hanno composizione piuttosto simile” (DOBZHANSKY 1965: 37). Il DNA contiene tutte le informazioni che sono alla base del progetto biologico del singolo individuo, del suo aspetto fisico, delle sue funzioni biochimiche, della sua personalità e delle sue potenzialità intellettive. Queste informazioni viaggiano nel corpo sotto forma di proteine. La teoria di Weismann, che è considerata il dogma centrale della biologia molecolare, afferma che “l’informazione genetica passa dal DNA al RNA che, a sua volta, funge da stampo per la sintesi delle proteine e che questo processo è unidirezionale” (MAINARD SMITH 1985: 67-8). “Le proteine occupano una posizione privilegiata nella cellula perché – in una mescolanza (anche estremamente complessa) di motivi chimici – ne sanno riconoscere alcuni in modo specifico.... In tal modo, le proteine funzionano, a ogni livello, come tanti diavoletti di Maxwell in lotta contro la tendenza meccanica al disordine; esse detengono le «conoscenze» necessarie a mantenere integra l’organizzazione cellulare” (JACOB 1971: 333-4).

L’individuo puro e semplice
Anche gli uomini si avvalgono di questi meccanismi e sono geneticamente predisposti a svolgere le necessarie funzioni vitali senza il supporto di cure parentali. Insieme agli organismi che li hanno preceduti, li chiameremo individui “puri e semplici”, o “elementari”, per indicare che sono in grado di vivere in modo isolato, senza famiglia e senza gruppo.
Nelle specie che non conoscono la famiglia, gli individui (sia che vivano in isolamento o in aggregazione) vengono sacrificati con molta facilità, perché il loro valore è minimo e quello che conta è la vita in generale. Gli individui senza famiglia sono concepiti in funzione di un ben determinato habitat e obbediscono ad un programma genetico rigidamente prestabilito, senza esserne in alcun modo coscienti. Sono pedine inconsapevoli di strategie naturali, il cui unico obiettivo è la vita biologica fine a se stessa. Finché le condizioni dell’habitat rimangono costanti, l’individuo ha buone probabilità di sopravvivere, ma, se l’habitat cambia più rapidamente rispetto alle sue capacità di adattamento, esso cessa di vivere. Possiamo concepire l’individuo puro e semplice come materia organizzata, che nasce, cresce, si riproduce e muore; o come una monade chiusa in se stessa, che non comunica intenzionalmente, non stabilisce rapporti coscienti coi propri simili, non ha emozioni, non ha ricordi, non ha storia. Di questi individui possiamo fare ciò che vogliamo, schiacciarli, tagliarli a pezzettini, bruciarli, senza con ciò determinare in loro sofferenza o dolore, senza cioè implicazioni di tipo etico. Essi, infatti, altro non sono che semplice materia vivente.
Fin qui la terra è tutta un pullulare di individui, che nascono e muoiono freneticamente e caoticamente, è un tripudio di vita, che si manifesta all’insegna dell’instabilità, della fugacità e del disordine. Questa situazione cambia con la comparsa delle prime differenziazioni sessuali (1 Gyr fa). Perché avviene questo cambiamento? In altri termini, perché la natura premia la differenziazione sessuale? Anche se “nessuno ha mai saputo spiegare in modo convincente perché esista la sessualità” (STAGUHN 2004: 78), tuttavia, la nostra ignoranza sull’argomento non è totale.

La differenziazione sessuale
Di sicuro, la differenziazione sessuale, come del resto la famiglia, non è importante ai fini della mera sopravvivenza, né come strumento di riproduzione idoneo ad incrementare il numero dei nati. Esistono, infatti, in natura strumenti riproduttivi alternativi, come la mitosi, la poliembrionia, la rigenerazione, la scissione, la partenogenesi e l’ermafroditismo, i quali, tra l’altro, rispetto alla famiglia, hanno l’indubbio vantaggio di essere più semplici ed efficaci. Si pensi allo straordinario mondo dei microrganismi e degli insetti: essi non conoscono la famiglia, eppure sono così numerosi da non avere alcun problema di sopravvivenza.
In realtà, l’effetto più rilevante della riproduzione sessuata è lo scambio di informazioni genetiche fra i due genitori, che avviene in due tempi. In un primo tempo, la doppia catena dei cromosomi si divide in due metà, generando due cellule “aploidi” o gameti. In un secondo tempo, con la fecondazione, avviene che il gamete maschile e quello femminile si fondono riscostituendo una nuova cellula diploide, detta zigote, il cui materiale genetico è il frutto del mescolamento casuale del DNA di entrambi i genitori, in ragione del 50% ciascuno, e costituisce il progetto di un nuovo individuo. In pratica, a parte il caso dei gemelli omozigoti, il mescolamento genico dà luogo ad una combinazione unica e irripetibile. Possiamo dire che, sotto il profilo biologico, la riproduzione sessuata ha per conseguenza che ogni individuo è diverso da ogni altro, pur conservando caratteristiche che fanno di lui un membro di una medesima specie. In altri termini, la riproduzione sessuata segna l’atto di nascita delle specie, e ciò contribuisce a portare ordine nel caotico mondo dei viventi, mentre la variabilità individuale costituisce un vantaggio ai fini della conservazione della specie stessa. Infatti, a fronte dei ricorrenti cambiamenti ambientali, è più probabile che ci sarà qualche individuo capace di adattarsi e sopravvivere. Non importa se la quasi totalità degli individui soccombe: quello che importa è che almeno qualcuno riesca a sopravvivere e a perpetuare la specie.

La comparsa della famiglia
Fino a mezzo miliardo di anni fa le specie animali che popolano la terra sono prive di scheletro e, pertanto, la loro scomparsa non lascia che minime tracce. Poi avvengono alcuni rilevanti salti evolutivi: 500 Myr fa compaiono i primi pesci vertebrati, 400 Myr fa i primi animali in grado di respirare aria, 300 Myr fa i primi rettili. I mammiferi entrano in scena intorno a 250 Myr fa, ma fanno registrare un grande sviluppo solo dopo l’estinzione dei dinosauri (65 Myr fa). Insieme a loro si afferma la famiglia, e questo costituisce un evento della massima importanza.
La differenziazione sessuale non comporta necessariamente la formazione di una famiglia. Presso la tartaruga marina, ad esempio, la schiusa delle uova avviene in assenza dei genitori e le piccole tartarughe appena nate devono provvedere da sole alle proprie necessità, con conseguenze apparentemente disastrose. Infatti, non appena le centinaia di migliaia di uova depositate sotto la sabbia si schiudono, le piccole tartarughe devono affrettarsi a guadagnare il mare, se vogliono avere qualche speranza di sopravvivere, ma la maggior parte di esse cade vittima dei predatori prima che riesca a raggiungere le onde. La sopravvivenza di questi animali è legata al grande numero delle uova e alla contemporaneità della loro schiusa. Il risultato è che più del novanta per cento dei nati non sopravvive ai primi pericoli, e coloro che si salvano non sono necessariamente i più forti, ma spesso solo i più fortunati. Qualcosa di simile avviene per le aringhe che, al largo delle coste oceaniche, depongono sulla superficie delle acque miliardi di uova, un facile pasto per i predatori, certo, ma quelle uova sono talmente numerose che risulta pressoché impossibile eliminarle tutte. La conseguenza è che un certo numero di esemplari sopravvive, e con essi la specie. Non siamo poi molto distanti dall’individuo puro e semplice.
Solo presso alcune specie l’attrazione sessuale è così forte e stabile da legare due individui e indurli a cooperare nella cura della prole, sì da dare origine alla famiglia. La famiglia rappresenta un tratto comune nel mondo dei mammiferi ed è possibile osservarla sia in animali relativamente semplici, come il topolino domestico, che in animali di crescente complessità, come il cane, il gorilla, lo scimpanzé. Tutti sono dotati, sia pure in diversa misura, di un sistema nervoso tale da consentire loro una vita di relazione cosciente e provare emozioni. Questi animali interagiscono attivamente, mossi da simpatia e antipatia, piacere e dolore, attrazione e paura; imparano, ricordano, si adattano. Se facciamo loro del male, possiamo farli soffrire, ed è ciò che genera considerazioni di tipo etico. Ritorneremo su questi argomenti.
Fra i mammiferi, nessun individuo, nel corso della sua lunga infanzia, può sopravvivere senza le cure parentali ma, una volta diventato adulto, egli può contare su ciò che ha appreso nei primi anni di vita per affrontare con successo le insidie dell’ambiente. Nella famiglia si ribalta lo schema che abbiamo descritto a proposito della tartaruga marina e dell’aringa: se, in questi casi, conta solo la specie e la maggioranza degli individui viene sacrificata, qui, invece, contano i singoli individui e la sopravvivenza della specie è solo una conseguenza della sopravvivenza individuale. Grazie alla famiglia l’individuo passa in primo piano e acquista valore, diventando più prezioso, tanto da meritare un notevole investimento di risorse da parte dei genitori. Inoltre, con l’affermazione della famiglia, assume importanza l’apprendistato e, poiché con la morte ciascuno porta via con sé l’intero bagaglio delle proprie conoscenze e abilità, ogni individuo che nasce deve apprendere tutto ciò che gli serve, ripartendo praticamente da zero, e questo comporta un investimento di energia non indifferente anche da parte di ogni piccolo. Il risultato finale è fatto di luci e ombre. Infatti, l’individuo acquista particolare forza quando può contare sulla presenza di una famiglia, mentre diventa particolarmente fragile e poco competitivo quando rimane solo a lottare.

Gli ominidi
Sette Myr fa si afferma l’ultimo antenato comune a umani e scimpanzé, che si caratterizza per la tendenza a nutrirsi di carne e l’uso di utensili. Poi, intorno a 5 Myr fa, fanno la loro comparsa in Africa i primi ominidi , ossia i nostri più antichi progenitori, che hanno una capacità cranica e un’intelligenza pari a quelle delle scimmie antropomorfe, alle quali li accomuna l’aspetto del loro corpo, che è di tipo umanoide. Sono gli australopitechi. Ciò che li contraddistingue è la capacità di camminare su due zampe, in posizione eretta, e di poter contare sulle proprie mani, che però sono usate in modo assai limitato a causa dello scarso sviluppo del cervello. Come altri mammiferi, gli australopitechi vivono in piccoli gruppi familiari, si cibano essenzialmente di vegetali, anche se non disdegnano altri cibi, come insetti, larve, uova, piccoli animali e, perfino, carogne occasionalmente reperibili qua e là nella savana. Sono animali opportunisti.
Trascorrono due milioni e mezzo di anni prima che l’australopiteco ceda il passo all’homo habilis, un ominide il cui aspetto continua a ricordare quello dell’australopiteco e di altri animali simili, quali il gorilla e lo scimpanzé, e così pure il tipo di vita, che si svolge all’interno di piccoli gruppi familiari e all’insegna dell’opportunismo, ma la cui intelligenza è tale da fare di lui il primo costruttore e utilizzatore di strumenti litici.

La società di banda
Un ulteriore progresso evolutivo dell’homo è rappresentato dalla comparsa dell’homo erectus (1,7 Myr fa), il primo ominide con sembianze molto simili alle nostre, che, grazie ad un ulteriore sviluppo cerebrale, è in grado di cambiare profondamente il proprio stile di vita: impara ad usare il fuoco, migliora la tecnica di lavorazione della pietra, adotta una dieta più decisamente onnivora, comincia a praticare la caccia, si esprime con un linguaggio articolato più evoluto e, fatto rimarchevole, passa da una società di tipo familiare alla più estesa società di banda, che può comprendere alcune decine di individui. Il successo dell’erectus è tale che egli riesce a popolare l’intero pianeta, anche se, alla fine, ciò comporta la nascita di nuovi problemi, che sono legati proprio al particolare affollamento di certe regioni, dove si va diffondendo uno stato di competizione perenne, che si esprime in diversi modi: in alcuni casi, più bande riescono a convivere pacificamente, pur conservando la propria identità, in altri casi si scambiano le donne e si integrano, ma, sempre più spesso, ricorrono a scontri violenti, a razzie e a stermini. La nuova situazione esercita una spinta verso un ulteriore perfezionamento del linguaggio e della comunicazione, un ampliamento del gruppo e un miglior controllo e sfruttamento del territorio. In questa situazione le bande più numerose e meglio organizzate hanno maggiori probabilità di sopravvivere.

Oltre la famiglia
La savana è popolata da numerose specie animali e la competizione è dura. Secondo le leggi dell’evoluzione, un animale può sopravvivere solo se è in grado di adattarsi all’ambiente e competere con successo con quanti condividono lo stesso habitat e le stesse risorse. A tale scopo, ogni individuo è dotato di particolari punti di forza, che possono consistere in attributi fisici (taglia, velocità, armi, mimetismo), nel numero (capacità riproduttive), nell’elasticità (capacità adattative), nella socialità (capacità associative), nell’intelligenza e nel linguaggio simbolico (costruire strumenti e capacità di comunicare). Ora, se ci chiediamo quali siano i caratteri che rendono l’erectus competitivo, noteremo non uno solo, bensì un insieme armonico di fattori, che risultano complessivamente idonei a conferirgli una buona competitività nei confronti di altri mammiferi: oltre al bipedismo, che libera le mani, rendendole disponibili per l’uso di oggetti, ricordiamo la posizione frontale degli occhi, che rende possibile percepire i più fini movimenti del volto, favorendo lo sviluppo della mimica facciale e della socialità, un grande cervello capace di produrre un pensiero simbolico, un apparato fonico tale da riuscire ad emettere una cinquantina di suoni, detti fonemi, che, variamente combinati, possono produrre un’infinita varietà di parole e un linguaggio articolato molto elaborato ed efficace. L’insieme di queste caratteristiche consente ai nostri antichi progenitori di superare gli angusti limiti della famiglia e creare gruppi di banda sempre più estesi, solidali e competitivi.

Il Neandertal
La specie homo erectus è certamente una delle più longeve, visto che riesce a sopravvivere per oltre un milione e mezzo di anni, e di maggior successo, visto che riesce ad espandersi in quasi tutta l’Eurasia. Ma nella terra non c’è nulla di eterno e, alla fine, anche l’erectus si estingue, tanto in Africa (100 Kyr fa), dove lascia il posto all’homo pre-sapiens, quanto in Eurasia (200 Kyr fa), dove si afferma l’homo sapiens neandertalensis, due ominidi più moderni, che possiamo chiamare “pre-umani”, uno dei quali si estinguerà, lasciando all’altro la signoria del pianeta.

L’orologio mitocondriale
I mitocondri sono degli organuli presenti all’interno delle cellule e, al pari del nucleo, contengono DNA, ma con qualche differenza. La prima è che, mentre i padri trasmettono ai figli solo il DNA nucleare, le madri trasmettono anche il DNA mitocondriale. La seconda differenza è che il DNA mitocondriale si caratterizza per un tasso di mutazione di almeno venti volte superiore rispetto a quello nucleare, fatto che lo rende più adatto a misurare l’evoluzione di una specie in tempi medi. Grazie all’orologio mitocondriale, B. Sykes ha potuto stabilire l’esistenza di un’antenata comune a tutti gli esseri umani moderni, che sarebbe vissuta, appunto, circa 150 mila anni fa, in Africa (2003: 56) .

Il Sapiens e le società di clan
Molto simili per sviluppo cerebrale e abilità fisica e manuale, i due Sapiens danno vita ad un progresso inarrestabile. Con loro l’industria litica raggiunge livelli sempre più alti e, per la prima volta, compaiono i primi segni culturali tipicamente “umani”, come un linguaggio verbale, che diviene sempre più elaborato e complesso, la comparsa di un linguaggio artistico (pittura e scultura, ornamenti e decorazioni del corpo) e di comportamenti legati all’autocoscienza e alla consapevolezza della vita e della morte (tumulazione di cadaveri, riti religiosi). Inoltre, entrambi i Sapiens dispongono di un’intelligenza simbolica tale da rendere possibile l’ampliamento del gruppo di banda e la costituzione della società di clan, che è formata da centinaia di individui. Intorno a 50 mila anni fa, i due Sapiens si incontrano nel Vicino Oriente e, da quel momento, convivono a lungo in condizioni di sostanziale parità. Tuttavia, a partire da circa 40 Kyr fa, la bilancia comincia a pendere a favore del pre-sapiens africano, il quale si rivela capace di creare le prime società tribali, che possono comprendere migliaia di individui, meritandosi per ciò l’appellativo di sapiens sapiens (d’ora in poi lo chiameremo per semplicità solo Sapiens), mentre il Neandertal non riesce ad andare oltre la società di clan.
Il Sapiens è l’animale più evoluto che la “famiglia” sia stata capace di produrre, e ciò che maggiormente lo contraddistingue è lo straordinario sviluppo del suo cervello, che lo rende capace di pensare e comunicare per mezzo di un linguaggio simbolico articolato, ricordare il passato e anticipare il futuro, mettersi nei panni degli altri e provare sensazioni empatiche, amare e odiare, gioire e soffrire, costruire e distruggere, imparare a discernere il bene dal male, esprimere con simboli grafici le proprie idee e i propri sentimenti, fare progetti per la propria vita. Il Sapiens è anche l’unico animale al mondo consapevole della propria finitezza e della propria morte e capace di osservare se stesso come se si trattasse di un’altra persona. La Bibbia parla di “conoscenza di tutto” e attribuisce questa facoltà ad un frutto proibito. E’ mangiando di questo frutto che Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi e ne provano vergogna (Gn 3,7). La scienza parla di “autocoscienza”, o semplicemente di “coscienza”, e attribuisce questa facoltà non ad un frutto proibito, ma alle proprietà del cervello. Per la scienza, “mente e psiche sono prodotti di processi fisico-chimici nel cervello” (STAGUHN 2004: 185). Nel loro insieme, queste facoltà fanno del Sapiens un animale di livello superiore, ma non sarebbero bastate da sole a fare di lui il signore incontrastato del pianeta. In altri termini, nonostante le sue eccelse qualità intellettive, l’uomo sarebbe rimasto un animale poco competitivo. Ciò che sopperisce all’intrinseca fragilità dell’individuo è la forza del gruppo. Sotto questo aspetto il Sapiens non ha uguali. Solo lui, infatti, è in grado di comprendere che i suoi vantaggi aumentano con l’aumentare delle dimensioni del gruppo e solo lui riesce a creare elaborati e funzionali ordinamenti giuridici e politici, che gli consentono di superare i limiti del clan e creare collettivi così vasti e organizzati da non temere la competizione con le altre specie.

Eva era nera
Studi eseguiti sul DNA mitocondriale (la cui particolarità è quella di trasmettersi solo per via materna) confermano che Eva era nera (MANZI 2006: 136) e, dunque, che “siamo tutti africani” (SCHRENK 2003: 109). In altri termini, il Sapiens origina dall’Africa ed è da qui che si è mosso, avviandosi alla conquista dell’intero pianeta. Mentre si trovano in fase di espansione demografica e alla continua ricerca di nuove terre da colonizzare, i più numerosi gruppi tribali del Sapiens non trovano difficoltà a vincere la resistenza dei piccoli clan neandertaliani e li cacciano dai loro insediamenti, fino a decretarne l’estinzione (30 Kyr fa). Da questo momento, il Sapiens rimane l’unico incontrastato signore della terra. Egli è il nostro diretto predecessore, il nostro Adamo. Sotto l’azione dei fattori climatici regionali, il Sapiens si differenzia sia dal punto di vista fisico (razze) che da quello culturale (alimentazione, abbigliamento, abitazioni, lingua, stile di vita), ma conserva immutato il suo patrimonio genetico.

Il genoma umano
Ciascun individuo umano, di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo, è composto da circa un milione di miliardi di cellule, ciascuna delle quali contiene 22 coppie di cromosomi, detti autosomici, più una coppia di cromosomi sessuali. I cromosomi risultano costituiti dalla sequenza di quattro basi (adenina, citosina, guanina e timina), che sono organizzate, funzionalmente, in triplette, ciascuna delle quali è una sorta di lettera alfabetica. In tutto, queste lettere sono 3,2 miliardi di paia, ma nessuna di esse, da sola, costituisce un’informazione dotata di senso. La più piccola catena di basi capace di contenere informazioni utili, è detta gene. Il genoma umano contiene 30-40 mila geni, che costituiscono circa il 2% dell’intero materiale genetico. Il restante 98% è stato chiamato “DNA spazzatura” e la sua funzione non ci è ancora nota.

La socialità del Sapiens
Uno dei tratti più importanti e caratteristici della specie umana è la sua dimensione sociale. La socialità fa parte integrante del patrimonio biologico del Sapiens, a tal punto che, come nota Marc Augé, "l'individualità assoluta è impensabile" (1993: 23). “Possiamo occuparci dell’individuo all’infuori del contesto sociale solo in astratto, poiché nessun individuo esiste o può esistere in quel modo” (KINCH 1978: 45). In realtà, “non vi è aspetto del comportamento umano che non sia contemporaneamente e inestricabilmente individuale e sociale ad un tempo” (BONINO, FONZI, SAGLIONE 1982: 41). La dipendenza dal sociale è così determinante che, senza il contributo dei propri simili, l’individuo umano non può svilupparsi in modo normale e, a volte, non può nemmeno sopravvivere.
Nel Sapiens i bisogni psico-sociali sono altrettanto importanti da soddisfare dei bisogni primari, a tal punto che “un uomo isolato non è affatto un uomo” (LORENZ 1984: 57). In altri termini, il cucciolo d’uomo ha bisogno di una famiglia particolarmente coesa e stabile per poter sviluppare le sue caratteristiche potenziali e acquisire una dignità umana. Cosa succede se un bambino viene fatto crescere in condizioni di isolamento sociale? Ragioni di ordine etico vietano l’espletamento di esperimenti sull’uomo atti a dimostrare l’effetto di deprivazioni ambientali. Ciò nondimeno, esistono dei casi che, pur non rientrando nel novero degli esperimenti rigorosamente scientifici, sono, tuttavia, in grado di darci un’idea di quel che potrebbe accadere qualora un bambino venga allontanato dal suo ambiente familiare.
Quella di Angela (la chiamiamo così) è la storia di una bambina non desiderata che, dopo i primi 6 mesi trascorsi in asilo-nido, è stata tenuta segregata in condizioni di grave deprivazione. Quando la bambina è stata scoperta, all’età di sei anni, aveva il livello mentale di un anno circa e non parlava. Nonostante i tentativi di recupero, a otto anni, Angela non sapeva ancora parlare ed era in ogni senso lontana dal livello dei bambini “normali” della sua età (da OSTERRIETH 1980: 23-4). Kamala è il nome di un’altra bambina, che è stata adottata da una lupa. Ritrovata dopo alcuni anni, quando ormai era una ragazzina, ella si muoveva e si esprimeva come un lupo e vani si rivelavano tutti i tentativi di educarla alla vita umana. Dopo dieci anni di trattamento rieducativo, infatti, Kamala non era riescita a superare il livello comportamentale e affettivo di un bambino “normale” di 4-5 anni (da OSTERRIETH 1980: 26-7).
Si conoscono una cinquantina di casi di ragazzi vissuti per anni con animali. Questi ragazzi, al momento della loro scoperta, esibivano comportamenti tipici della specie degli animali con i quali avevano vissuto, e i tentativi di un loro recupero si sono rivelati inutili. “Il fatto è che i cuccioli della nostra specie costruiscono se stessi per buona parte attraverso l’apprendimento sociale, sui modelli degli appartenenti al loro gruppo, ed è perciò che sappiamo di ragazzi-gazzelle che sembravano gazzelle, di ragazzi-lupo, di ragazzi-orso o cinghiale, di altri ragazzi-scimmia e in tutti il comportamento si era forgiato sulla specie modello. Inoltre in tutti si manifestava, dopo la cattura, un totale rifiuto, o forse un’impossibilità, a un reinserimento tollerabile nell’ambiente sociale umano. Tutte storie finite tristemente, dunque, quelle dei ragazzi allevati da animali” (MAINARDI 1979: 157).
“Sembra dunque che non esista uno sviluppo umano immutevole e inevitabile, e che il bambino non pervenga necessariamente allo stato adulto; in un ambiente animale, egli diventa quasi una specie di animale. Sembrerebbe altresì che la stazione eretta e la deambulazione bipede, per le quali l’uomo possiede per altro la struttura anatomica adatta, si acquisiscano solo se il bambino vive a contatto di esseri che hanno l’abitudine a questa posizione e a questo modo di camminare. A maggior ragione, accade la stessa cosa per quella condotta così specificamente umana che è il linguaggio: il bambino non può scoprire la parola se non tra persone che parlano. Come è stato ben espresso da Piéron, il bambino è solo un «candidato alla condizione umana»: le caratteristiche di adulto non sono «fissate» in lui in modo così assoluto come nell’animale. Si potrebbe dire che l’uomo nasce «selvaggio» o, più esattamente, polivalente e ampiamente indeterminato nonostante i suoi caratteri ereditari, e ha come caratteristica principale l’essere straordinariamente plastico e adattabile” (OSTERRIETH 1980: 27-8).

Conflitto fra socialità e unicità
La forte propensione sociale del Sapiens non annulla la sua individualità e la sua unicità. “Ogni individuo è unico perché in nessun luogo e in nessun tempo, si può trovare una persona identica, con la stessa costituzione biologica e lo stesso insieme di esperienze di vita” (NASH 1975: 9). “La struttura del DNA è talmente specifica per ognuno di noi da non essere mai ripetuta in futuro, né essere mai esistita in nessun uomo del passato o del presente, a meno di non avere un gemello omozigote” (ECCLES 1981: 150). Minime a livello biologico, le differenze individuali acquistano particolare spessore e rilevanza a livello culturale e sono tali da giustificare l’unicità dell’individuo, anche quando le classi dominanti e gli Stati fanno di tutto per creare soggetti omologati. L’unicità dell’individuo non solo è insuperabile, ma è anche un bene da preservare, perché il motore dell’evoluzione culturale è proprio il soggetto individuale. Mi sembra questo il senso di queste belle parole di Kahlil Gibran, che ho piacere di ricordare: “La vostra vita, o miei amici, è un’isola separata da ogni altra isola e contrada. Non importa quante siano le navi che lasciano i vostri lidi per altre latitudini, non importa quante siano le flotte che toccano le vostre coste; sarete sempre un’isola romita” (1992: 45).

Unicità dell’individuo
Se è vero, come asserisce la scienza, che il DNA di tutti gli uomini è uguale al 99,9 per cento, ne consegue che le differenze biologiche fra gli uomini si fondano solo sull’uno per mille dei geni. Ciò non vuol dire che differenze genetiche siano irrilevanti. Basti pensare che una differenza chimica dell’1-2% del DNA ha per risultato due individui molto diversi, come un uomo, uno scimpanzé e un gorilla. Ma perché una differenza genetica così esigua (l’uno per mille) è in grado di generare individui così diversi, come un Caino e un Abele, un Hitler e un San Francesco, un barbone e un Re Sole? Evidentemente devono entrare in gioco fattori ambientali, oltre a quelli genetici. Se un giorno la clonazione dovesse diventare una prassi rutinaria sì da poter capitare a chiunque di venire a contatto con un proprio clone, è possibile prevedere che due cloni, ossia due individui con lo stesso DNA, litighino, si critichino, si odino e persino si uccidano. Lo stesso vale per due gemelli omozigoti: anch’essi possono sviluppare idee conflittuali e differenti stili di vita, e andare in totale disaccordo. Ne consegue che l’unicità dell’individuo deve dipendere, più che da differenze biologiche, da differenze culturali.

Società tribali
Dopo l’estinzione del Neandertal, il pianeta è popolato solo da Sapiens, che sono organizzati, su base paritaria, in gruppi di diverse dimensioni (bande, clan e tribù), che vivono sempre a più stretto contatto fra loro, stabilendo rapporti ora amichevoli ora ostili. In caso di carestie o calamità naturali, sono i gruppi più numerosi (ossia le tribù) e meglio organizzati ad avere maggiori probabilità di procurarsi le risorse di cui hanno bisogno e sopravvivere, mentre i gruppi minori (clan e bande) tendono a soccombere. Diciamo che la società tribale costituisce il miglior compromesso che il Sapiens sia stato capare ci trovare 30 mila anni fa. Ma che tipo di vita conducono queste società tribali?

Domìni e regni
Fino alla scoperta dell’agricoltura (10 Kyr fa), le tribù vivono alla maniera dei nomadi e non sono strettamente legati ad un territorio, così che, in caso di minaccia esterna, anziché accettare lo scontro in campo aperto, preferiscono fuggire, rifugiandosi in aree impervie e semidesertiche. La situazione cambia quando, con la scoperta dell’agricoltura, le singole tribù non possono permettersi di abbandonare le terre che hanno seminato, così che il pericolo di scontri armati diventa endemico. In questo nuovo contesto le principali tribù, che praticano l’agricoltura, cominciano ad organizzarsi intorno ad un capo stabile, costruendo villaggi fortificati (i cosiddetti domìni o chefferie), alla cui testa c’è un capo con poteri limitati, e le prime città-stato (regni), che sono governate da sovrani dotati di ampi poteri. Di norma, il gruppo tribale che pratica il nomadismo conserva la tradizionale organizzazione sociale paritaria e, solo in casi particolari, accetta di eleggere un capo, cui conferisce poteri straordinari limitatamente allo stato d’emergenza, cessato il quale tutto ritorna come prima. Da questo momento, e sempre più spesso, feroci capitribù e potenti sovrani entrano in rotta di collisione e lottano fra loro in tutti i modi possibili (stringendo alleanze, stabilendo rapporti commerciali o ricorrendo alle armi) per fare razzie, difendersi da un attacco o assicurarsi l’egemonia della regione. E’ così che la guerra fa il suo ingresso fra gli uomini e regola i loro rapporti e i loro stili di vita.
Nel periodo compreso fra 8 e 7 Kyr fa, in Egitto e in Mesopotamia è un pullulare di domìni, chefferie e piccoli regni, che aprono uno stato di guerra perenne, senza che nessuno riesca ad imporre la propria autorità in modo stabile e duraturo sull’intera regione. Bisogna aspettare il sesto millennio BP prima che, in Mesopotamia, un’unità regionale sia realizzata, anche se solo per periodi relativamente brevi, grazie alle doti di taluni grandi sovrani sumeri, che assumono dignità semi-divina. In Egitto, invece, nello stesso tempo, grazie alla piena divinizzazione di un re, chiamato faraone, si riesce nella mirabolante impresa di assicurare l’unità regionale quasi ininterrottamente per tremila anni. Sumer ed Egitto rappresentano le prime grandi civiltà della storia. Ciò che le contraddistingue è la presenza di un sovrano di primo livello, che esercita un controllo su altri sovrani minori e su popolazioni diverse, che si riconoscono uniti in lui. L’esigenza di controllare un così vasto territorio e tenere unite popolazioni così eterogenee, aventi culture e lingue diverse, induce il sovrano a circondarsi di funzionari, i quali, per poter svolgere adeguatamente i compiti ai quali sono chiamati, inventano la scrittura (5,5 Kyr fa) e aprono le porte alla storia propriamente detta.

La scrittura
Una delle più importanti conseguenze dell’invenzione della scrittura è la possibilità concessa all’uomo di tramandare ai posteri il proprio pensiero anche dopo la propria morte, che, generazione dopo generazione, consente di accumulare esperienze e conoscenza e di realizzare quella che è comunemente nota col nome di «evoluzione culturale». La tesi avanzata da John Eccles è che, “in contrasto con l’evoluzione biologica, l’evoluzione culturale sia una caratteristica esclusivamente umana. La cultura è fatta dall’uomo. Solo l’uomo ha la capacità potenziale di partecipare alla cultura nella doppia veste di colui che la esperisce e di colui che la crea. Gli animali non hanno cultura, e sono ciechi alla cultura” (1981: 121). In realtà, questa tesi oggi non è più sostenibile, almeno nella forma così categorica in cui è stata formulata da Eccles. Non è vero, infatti, che gli animali non hanno cultura, ma è vero che non hanno una cultura veicolata dalla scrittura, il che fa sì che l’evoluzione culturale presso gli animali sia enormemente più lenta rispetto agli uomini.

Prime civiltà
Da questo momento, i sovrani, i popoli, le città e i regni, che si succedono nel corso dei secoli, lasciano non solo tracce delle loro costruzioni, delle loro case, dei loro templi, delle loro fortificazioni, delle loro strade e delle loro armi, ma anche testimonianze scritte di ogni genere, che si trovano incise su pietra, tavolette d’argilla, lastre metalliche, e su altri supporti non deperibili (il resto andrà perduto). Nei palazzi dei sovrani, gli scribi tengono la contabilità delle spese amministrative e militari e, soprattutto, l’elenco dei debitori; ma c’è anche qualcuno che scrive preghiere di ringraziamento agli dèi, o inni encomiastici per i natali o le gesta del sovrano, o le volontà del sovrano stesso, che hanno valore di legge. Alcune di queste opere vengono declamate in pubblico in particolari occasioni e acquistano celebrità, tanto da suscitare una sostenuta domanda d’acquisto da parte di certi sovrani “illuminati” e la creazione di un vero e proprio mercato di opere letterarie, di cui gli scribi fanno delle copie, che poi i mercanti andranno a consegnare ai facoltosi committenti. Alcuni sovrani sono disposti a spendere una fortuna pur di abbellire le proprie dimore con queste preziose opere, e alcuni antichi palazzi acquistano celebrità, proprio perché ospitano enormi biblioteche.

I miti
In questa nuova temperie culturale gli uomini cominciano a porsi domande sul mondo e sul senso della loro vita, ma, il più delle volte, non riescono a trovare una risposta chiara ai propri perché. Alla fine, mal sopportando il peso dell’ignoranza, si rifugiano nella fantasia, dove trovano quel che stanno cercando. Così, anche se ignorano quando, come e perché l’universo abbia avuto origine, alcuni soggetti altolocati (capifamiglia e capiclan) creano i primi racconti mitico-religiosi, che sono per lo più popolati da esseri spirituali immaginari, dotati di potenza e sapienza sovrumane e, dunque, in grado di conferire valore sacrale al racconto stesso e legittimarne il contenuto. I miti sono forme di conoscenza che, rispondendo al bisogno dell’uomo di controllare il mondo ad ogni costo, spiegano ogni cosa: l’abbondanza e la scarsità, la salute e la malattia, la vita e la morte, la vittoria e la sconfitta, la buona e la cattiva sorte, gli eventi naturali e le vicende umane, l’origine, la natura e lo scopo del mondo. Tutto trova una risposta nel mito. Le verità mitiche sono ritenute degne di fede perché, si pensa, provengono dagli spiriti. Non sono gli uomini i protagonisti della conoscenza, ma gli dèi, i quali, a loro piacere, decidono di parteciparla a dei personaggi speciali (un capofamiglia, un capoclan), che, a loro volta, possono renderla pubblica attraverso il racconto mitico. Rimane il fatto che gli uomini ignorano l’origine, la natura e lo scopo di quegli spiriti che hanno fornito loro le risposte sul mondo. Essi stanno semplicemente spostando la loro ignoranza ad un altro livello, ma questa è una questione che, per ora, non si pongono. Per il momento, si accontentano di soddisfare il loro bisogno di certezze: alle questioni filosofiche e metafisiche ci penseranno, se sarà il caso, in un secondo tempo. Il risultato è comunque notevole: adesso gli uomini dispongono delle prime “teorie” in grado di spiegare il cosmo, la sua natura e i suoi scopi.

Le religioni
Una volta stabilito che la natura è governata dagli spiriti, l’uomo avverte il bisogno di far leva su quegli spiriti, che lui stesso ha creato, al fine di controllare, per loro tramite, il mondo che lo circonda. Già, ma come fa l’uomo a servirsi degli spiriti, se nemmeno li conosce e se è, per definizione, infinitamente inferiore ad essi? La soluzione del problema viene affidata a speciali individui, gli sciamani, che si ritiene dotati di straordinarie qualità e capaci di intercedere presso gli spiriti stessi sì da indurli ad esaudire i desideri degli uomini. Nemmeno lo sciamano, però, in fondo, ha una diretta conoscenza dello spirito, perché non riesce a vederlo, né udirlo, né toccarlo e, tuttavia, interpreta il ruolo al quale è chiamato con zelo intenso e profonda partecipazione, fino ad autoconvincersi che, effettivamente, egli ha il potere di conoscere la volontà dello spirito e di volgerla a favore della sua gente, ma anche contro. Con lo sciamano fanno il suo ingresso nella storia il rito e, con esso, la religione.
Minuscolo punto in un universo infinito e misterioso, dal quale è sovrastato, fingendo di sapere e comportandosi come se l’intera natura fosse sotto il suo controllo, l’essere umano, inconsapevolmente, sta bluffando, ma il risultato è stupefacente. Così facendo, infatti, egli riesce a ribaltare la situazione a suo favore e, convincendosi di poter piegare la natura al suo volere, acquista fiducia in se stesso e s’impegna in imprese memorabili. In realtà, molte cose continuano a sfuggirgli di mano e di molte cose (per esempio, della vita e della morte) continua ad ignorare il reale significato. Egli potrebbe essere onnipotente e onnisciente solo se fosse perfetto come uno spirito, ma, dato che perfetto non è, deve rassegnarsi ad accettare i propri limiti e a subire il mistero del mondo. L’esperienza quotidiana gli insegna che, nonostante l’intervento dello sciamano, molte cose continuano a non andare come egli vorrebbe, e, tuttavia, egli non sa trovare una soluzione migliore di quella che gli offrono la magia e la religione.
Adesso, tribù, chefferie e città-stato hanno proprie divinità fondatrici e tutelari, nelle quali si riconoscono e dalle quali si aspettano assistenza, aiuto, protezione, fortuna e garanzie di successo nella sempre più aspra competizione per la sopravvivenza e l’egemonia regionale. Inoltre, ciascun gruppo può contare su una propria tradizione magico-religiosa, in grado di spiegare le proprie origini, il proprio ruolo e il proprio destino nel mondo. Alcuni miti, tuttavia, superano i limiti della tribù d’origine e acquistano una risonanza intertribale, creando i presupposti per una possibile integrazione culturale. E’ soprattutto in caso di pericolo, o in vista di un’eccezionale impresa di conquista, che tribù diverse possono decidere di compattarsi sotto una stessa divinità e dare vita ad un sentimento di unità nazionale. Nascono così i primi “popoli”.

Le guerre
Quando, nelle regioni più popolate, tribù, chefferie e città-stato si trovano a confrontarsi in un clima di accesa rivalità, gli sciamani officiano particolari riti propiziatori, allo scopo di impetrare la benevolenza delle divinità tutelari e rassicurare la popolazione. Come dire: “se il dio è dalla nostra parte, non abbiamo nulla da temere”. Ma che cosa succede quando una tribù viene sconfitta? I casi possibili sono tre. Primo, essa viene annientata fisicamente: in questo caso, il suo nome viene cancellato dalla storia e, insieme ad esso, spariscono anche i nomi delle sue divinità. Secondo, la tribù perdente si piega e si integra coi vincitori: in questo caso le sue divinità possono essere abbandonate, in quanto perdenti e non più meritevoli di culto, oppure vengono integrate nel panteon dei vincitori come divinità di secondo e terzo livello. Terzo, per quanto mutilata e umiliata, la tribù sopravvive e mantiene una qualche autonomia: in questo caso, essa si interrogherà su eventuali proprie manchevolezze o sulla debolezza delle proprie divinità e si preparerà ad una rivincita, oppure si rassegnerà a svolgere un ruolo subalterno.
I vincitori, invece, abitualmente, si compiacciono della potenza del loro dio e sentono il dovere di ringraziarlo non solo coi soliti riti, ma anche erigendogli templi di grandezza e bellezza pari ai suoi meriti, che poi affidano alle cure di particolari funzionari, chiamati sacerdoti, i quali prendono il posto degli sciamani. Da questo momento, guai a chi manca di riguardo al dio supremo! Egli potrebbe offendersi e voltare le spalle al suo popolo, votandolo alla rovina. E’ il re che si fa garante del suo popolo nei confronti del dio e che risponde in prima persona in caso di inosservanza del culto o di condotte irresponsabili a favore di altri dèi. All’interno delle corti e dei templi, qualche funzionario racconta per iscritto le origini e le gesta del dio supremo e del suo re. Si tratta delle prime forme di “storia”, che sono intrise di religione e fantasia: un giorno i greci le chiameranno miti, per distinguerli dalla storia vera e propria, ossia dalla narrazione scrupolosa e obiettiva di fatti realmente accaduti e testimoniati.

Israele
Una delle opere di maggior risonanza mondiale viene redatta a più riprese da certi intellettuali legati al tempio e al palazzo in due piccoli regni della terra di Canaan, Israele e Giuda, abitati da tribù ebraiche. Dopo la distruzione d’Israele ad opera degli assiri, alcuni scritti di questo regno passano a Giuda, dove vengono integrati con la letteratura locale, rielaborati e, infine, pubblicati in forma unitaria, in un periodo (VI secolo) in cui gli ebrei sono usciti sconfitti nella competizione con altri popoli, ma non del tutto privati della loro autonomia. Stiamo parlando del Pentateuco, ossia il nocciolo duro della Bibbia, che racconta la storia mitico-religiosa di queste tribù ebraiche, a partire dalle loro più remote origini e fino a Mosè, ma con una particolarità: Jahve, il dio apparentemente perdente degli ebrei, viene sorprendentemente scagionato da ogni responsabilità. Secondo il Pentateuco, i veri responsabili della sconfitta sono gli ebrei stessi, mentre Jahve rimane il più potente degli dèi e un giorno lo dimostrerà, concedendo al suo popolo la rivincita sui suoi nemici e il dominio sul mondo intero. Partendo da queste basi, nel periodo successivo (VI-II secolo) gli ebrei aggiungono nuovi scritti al Pentateuco e rafforzano ulteriormente la loro ideologia religiosa proclamando un monoteismo assoluto: Jahve è l’unico dio, cioè è Dio, e questa acquisizione rappresenta la più solida garanzia che la sua Promessa (gli ebrei domineranno il mondo) giungerà un giorno a sicuro compimento.
Siamo così giunti a ridosso della nostra era, ossia in pieno periodo storico. Da questo momento le nostre conoscenze si faranno sempre più ricche e articolate. Ma quanto tempo è trascorso per giungere fin qui! Se noi chiudiamo gli occhi davanti ai 5 milioni di anni di preistoria rischiamo di non comprendere nemmeno quella che chiamiamo “storia”. La conoscenza della preistoria è importante per poter comprendere il presente e noi stessi. Ebbene, quello che noi sappiamo sull’intricata trama del processo evolutivo dell’ominazione (vedi tavola qui di seguito) è certamente poco ma, per noi, è meglio che niente.

Cristianesimo
Con la diffusione del cristianesimo, la Bibbia acquista una straordinaria risonanza e si diffonde in tutta l’Europa, dove viene venerata come il libro sacro per eccellenza. La sua autorevolezza è tale da costituire il punto di riferimento e la pietra di paragone di tutto lo scibile della cristianità, tanto che una presunta verità non è ritenuta tale se discorda da essa, e così sarà fino a quando Darwin non renderà pubblica la sua teoria dell’evoluzione. Fino a quel momento, è opinione diffusa che solo gli accadimenti successivi alla scoperta della scrittura meritano di essere definiti “storici”, vale a dire veritieri e reali, mentre ciò che precede la scrittura è “preistoria”, ossia fantasticheria, favola e oscurità. In pratica, la preistoria è ignorata e si tien conto degli ultimi seimila anni, in pieno accordo col racconto biblico. Secondo i calcoli degli studiosi biblici, infatti, Dio avrebbe creato Adamo, proprio nello stesso tempo in cui, secondo la scienza, i sumeri e gli egizi avrebbero inventato la scrittura. E’ solo una fortuita coincidenza? Può darsi, ma ciò rafforza i creazionisti nella convinzione che esiste solo il periodo storico e che la preistoria è un’autentica panzana. Tuttavia, in questo breve arco di tempo, non è stato possibile fare piena luce sulla preistoria, né liberarci dal gravoso condizionamento di una tradizione millenaria, che è ancora legata alle spiegazioni di tipo mitico-religioso. L’interesse per la preistoria si fa vivo solo dopo Darwin e, grazie alle scoperte di nuovi fossili e ai progressi delle scienze, oggi sappiamo che gli ominidi sono comparsi sulla terra 5 Myr fa, mentre l’uomo moderno ha una storia lunga 50 Kyr. Ai nostri giorni la preistoria è ritenuta una realtà incontestabile e non c’è testo di storia che non parli dell’”età della pietra”, anche se le nostre conoscenze al riguardo sono ancora assai scarse, e tanto più scarse quanto più si va indietro nel tempo.

I limiti della scienza
I limiti della scienza sono tali da rendere ancora appetibile l’alternativa religiosa. Così, anche uno scienziato come Paul Davies, che non si professa adepto di nessuna religione tradizionale, ammette che “l’enigma dell’origine cosmica è probabilmente l’unica area in cui lo scienziato ateo si senta a disagio” (1993: 36) e, forse per superare questa sgradevole sensazione, si dichiara disposto a credere che il cosmo non si sia formato per caso, che esso faccia parte di un disegno superiore, che abbia uno scopo. “Finché l’universo ha avuto un inizio –scrive Hawking–, noi possiamo sempre supporre che abbia avuto un creatore” (1990: 165) e possiamo pensare che le leggi che governano il mondo “potrebbero essere state decretate in origine da Dio” (1990: 144). Insomma, finché ci sarà qualcosa di oscuro, perfino uno scienziato laico avvertirà l’esigenza di aggrapparsi a un dio. Ciò conferma, in fondo, l’assunto che non c’è incompatibilità fra scienza e fede e che la religione costituisce ancora uno strumento valido per spiegare il mondo.
Ma c’è un problema. L’esistenza di Dio non può essere provata con certezza né dai sensi e nemmeno dalla ragione, e, anche se un giorno riuscissimo a provarla, sorgerebbe spontanea la domanda: “Ma Dio da che cosa è spiegato? Questo venerabile indovinello, «Chi ha creato Dio?», rischia di farci cadere in un regresso all’infinito; e a quanto pare l’unica via d’uscita consiste nel postulare che Dio possa in qualche modo «spiegare se stesso», vale a dire che sia un essere necessario...” (DAVIES 1993: 217). A questo punto, però, vorremmo sapere perché Dio è un essere necessario e come possa da un essere necessario prendere origine un mondo contingente. “Sebbene le esigenze della razionalità ci spingono a farci questa immagine di un Dio che sia spiegazione ultima dell’universo, ci sono gravi difficoltà a mettere in rapporto questo Dio con un universo contingente, mutevole e soprattutto abitato da esseri forniti di libero arbitrio” (DAVIES 1993: 218). Infatti, “da proposizioni necessarie seguono proposizioni necessarie” (DAVIES 1993: 218). Se Dio è il creatore di un mondo contingente, dev’essere anch’egli contingente. Insomma, da un lato avvertiamo l’esigenza di un essere necessario, immutabile ed eterno, dall’altro, non riusciamo ad escludere l’idea di un dio contingente e non autosufficiente, che, in qualche modo, è costretto ad interagisce col creato.

O fede o scienza
Ecco, dunque, quali sono le nostre due uniche opzioni: o ci accontentiamo delle scarne e insufficienti certezze del sapere scientifico, oppure ci inoltriamo fra le nebbie consolatorie della religione. La terza opzione, quella di chiudere gli occhi e ignorare la questione delle nostre origini, è troppo misera per meritare di essere presa in considerazione. Poiché, in entrambi i casi, veniamo a trovarci di fronte ad un muro d’ignoranza, dovremo accondiscendere nel riconoscere a ciascuno la facoltà di decidere secondo la propria coscienza. Chi sceglie la religione sarà libero di credere in ciò che vorrà, potrà parlare della sua fede con chi sarà disposto ad ascoltarlo e creare delle libere comunità locali o dei liberi gruppi di discussione. Analogamente, chi sceglie la via della scienza si limiterà al contingente e procederà attraverso l’osservazione, l’esperimento e la verifica. Anche lui potrà organizzarsi in libere comunità locali o in liberi gruppi di discussione. In entrambi i casi si dovrà evitare di imporre ad altri il proprio pensiero, esprimere pensieri dogmatici ed elevare pericolosi steccati istituzionali (MUNI 1993).
Il relativismo non riguarda solo il mondo della scienza, ma anche, in generale, tutto ciò che è umano e, a maggior ragione, la sfera della fede, la cui principale caratteristica è quella di essere personale e, quindi, variabile da soggetto a soggetto. La fede tende, per sua natura, alla soggettivazione e, se non ci fossero istituzioni autoritarie, ciascun individuo sarebbe portatore di una sua verità sovrana e nessuno avrebbe ragioni per prevaricare su altri. Le cose cambiano quando c’è un centro di potere organizzato, com’è quello della Chiesa romana, che, mentre rigetta i princìpi di tolleranza e democrazia, e disconosce il valore della libera discussione, si arroga la facoltà di elaborare e imporre dogmi. L’assolutismo dogmatico non attiene alla fede, attiene all’istituzione. Anche la scienza deve rinunciare alla pretesa di affermare verità immutabili e incontestabili e accettare le critiche, da dovunque provengano. Lo scienziato deve attenersi al ruolo che gli compete. Di norma, egli parte da una situazione problematica o perfettibile e, servendosi dei propri sensi e della propria ragione, osserva, analizza, indaga e s’interroga al fine di conoscere e migliorare l’esistente e, quando scopre qualcosa d’interessante, ne dà l’annuncio alla comunità scientifica e divulga i vantaggi della sua scoperta, dalla quale si attende riconoscimento e gloria. Comunque vadano le cose, giammai ci aspetteremmo che uno scienziato osi presentare la sua teoria come se fosse una verità assoluta. Una teoria scientifica, infatti, è ritenuta veritiera solo fino a quando non venga confutata. E’ inconcepibile un’istituzione scientifica fondata sul dogma, perché la scienza è, e deve essere, per sua natura, aperta agli interventi e alla discussione.
Poiché né la religione, né la scienza riescono a fornirci risposte convincenti sull’origine del cosmo, abbassiamo il livello delle nostre pretese e acconteiamoci, almeno, di conoscere le nostre origini naturali, le origini dell’homo. Cosa sa oggi l’uomo di se stesso? Dipende dal tipo di approccio: se inforca le lenti della religione, vedrà un corpo materiale vivificato da un’anima spirituale, e andrà alla ricerca di un Dio-creatore; se invece sceglie l’approccio scientifico, vedrà solo un corpo senz’anima, ossia un semplice animale, che può essere indagato e compreso con metodi esclusivamente umani. Né la religione, né la scienza sono, come abbiamo detto, in grado di offrirci una conoscenza certa dell’individuo, ma, mentre la prima tende ad istituzionalizzarsi e mummificarsi in uno scrigno fatto di sacro autoritarismo, la seconda è più propensa a mettersi in discussione, e questo ce la rende più attraente. In questa sede tralasceremo l’approccio prettamente religioso, che ci sembra più legato alla sensibilità di ciascuna persona e meno adatto alla discussione, e seguiremo quello scientifico, che, fondandosi sull’esperienza empirica e parlando col linguaggio delle leggi della chimica e della fisica, della biologia e della genetica, dell’evoluzionismo e della paleontologia, della psicologia e della sociologia, ci sembra più stimolante e più consono all’investigazione speculativa.
Se conoscessimo a sufficienza la storia del cosmo e quella dell’homo, a partire dalle più remote origini, avremmo gli strumenti per una profonda comprensione di noi stessi e del nostro presente, e potremmo anche concepire un modello ideale di società, col quale confrontare i notri modelli politici reali. Ma, fino a quando questa conoscenza ci è preclusa e se non vogliamo essere stretti fra l’incudine del dogmatismo religioso e il martello dell’inadeguatezza scientifica a fornirci certi tipi di risposte, non ci rimane che cercare un valido compromesso, un punto d’appoggio sicuro, una solida base su cui costruire il nostro pensiero. E quale compromesso può essere migliore dell’individuo? Infatti, non solo l’individuo rappresenta l’unico oggetto certo di conoscenza; egli rappresenta anche l’unico soggetto certo di conoscenza, e ciò vale sia se guardiamo la realtà con le lenti della fede, sia se la guardiamo con le lenti della scienza. La conoscenza di noi stessi dovrebbe costituire, al momento attuale, la migliore propedeutica per un qualsivoglia discorso politico che si voglia definire serio. Ebbene, almeno sotto il profilo scientifico, questa conoscenza risulta impossibile se ignoriamo il contributo di Darwin. In altri termini, quel poco che sappiamo del nostro remoto passato lo dobbiamo allo scienziato inglese.

Nessun commento:

Posta un commento