martedì 21 luglio 2009

08. L'individuo e lo Stato

“L’uomo è un essere manchevole, ha bisogno della società” (DAHRENDORF 1994: 26) e trova piena soddisfazione “solo quando si sente riconosciuto come entità significativa nella collettività in cui vive” (PARENTI 1987: 48). In realtà, queste espressioni non sono del tutto esatte. L’uomo, infatti, non è “manchevole” della dimensione sociale: la contiene già. Egli produce socialità e gruppi organizzati allo stesso modo in cui produce ormoni e globuli rossi, e “ha bisogno della società” nello stesso modo in cui ha bisogno degli ormoni e dei globuli rossi, e cioè non come di qualcosa che gli è esterna, ma come qualcosa che gli è connaturata e gli appartiene. Inoltre, per un individuo è certamente importante essere riconosciuto dagli altri nel suo ruolo sociale, ma è altrettanto importante il suo livello di autostima. Se tale livello è basso, un soggetto può decidere di farla finita, anche se altri lo apprezzano, mentre, se la sua autostima è elevata, egli può resistere ad un prolungato stato di disistima sociale. Il punto nevralgico è, ancora una volta, l’individuo, non la società, anche se ciò non vuol dire che il ruolo della società sia di scarso valore.

L’individuo tra egoismo e socialità
In realtà l’individuo può essere concepito come la sintesi di due distinte dimensioni, l’una sociale l’altra individuale, da cui prendono origine due distinti sentimenti: il sentimento sociale, che suscita “il bisogno di integrarsi con i propri simili e di cooperare con loro” (PARENTI 1987: 48), e il sentimento individuale, che genera la «volontà di potenza», ossia l’aspirazione ad emergere e “primeggiare sugli altri” (ADLER 1994: 40). Dal sentimento sociale nascono i princìpi morali, la moderazione, l’etica, la solidarietà, il diritto e la politica; dal sentimento individuale prendono origine l’egoismo, le prevaricazioni, le ingiustizie, le azioni violente e le guerre. Le due tendenze stanno fra loro in un rapporto inversamente proporzionale, nel senso che all’aumentare dell’una si riduce l’altra, e viceversa. A seconda che prevalga l’uno o l’altro sentimento, e ciò dipende tanto dalla biologia del singolo individuo quanto dall’educazione, avremo persone con caratteri diversi, che, a loro volta, daranno vita a società di tipo diverso: le condizioni di vita della gente saranno tanto migliori quanto più sarà preminente il sentimento sociale e tanto peggiori quanto più sarà preminente il sentimento individuale.

Dalla famiglia allo Stato
Il più piccolo gruppo sociale, in grado di soddisfare i bisogni dell’individuo, è la famiglia, all’interno della quale, i rapporti relazionali fra i singoli membri in parte obbediscono al principio di forza, in parte dipendono da due potenti legami biologici, che abbiamo indicato nel sesso e nell’attrazione parentale. All’interno della famiglia, ogni membro è un soggetto di valore e i rapporti interindividuali si svolgono su un piano paritario. Nel tentativo di controllare meglio il territorio e di porsi nelle migliori condizioni possibili mentre compete con altri gruppi, l’uomo ha ampliato progressivamente le dimensioni del nucleo familiare, fondando, nell’ordine, la banda, il clan e la tribù, senza, tuttavia, rinunciare al rapporto egalitario fra gli individui membri. Fino alla società tribale, infatti, non si osservano rilevanti logiche di potere e prevale l’equilibrio paritetico nel rapporto interindividuale: né l’individuo ha una qualche supremazia sul suo gruppo, né il gruppo sovrasta l’individuo, ma entrambi sono, nello stesso tempo, interdipendenti e sovrani. È un equilibrio mirabile, che si spezza nel momento in cui l’inarrestabile corsa alla realizzazione di gruppi sempre più estesi porta alla nascita dello Stato. In teoria, e per logica, lo Stato dovrebbe costituire un semplice superamento della società tribale e la sua affermazione dovrebbe giustificarsi solo in virtù del fatto che esso garantisce meglio la sicurezza e la libertà dei singoli individui. In realtà, invece, le cose procedono in tutt’altra direzione, probabilmente, alquanto inaspettata e generano delle conseguenze non sempre positive.

Lo Stato nasce dalla forza
Il principale problema nasce dall’evidenza che la formazione degli Stati avviene generalmente mediante l’uso della forza e a prezzo del sacrificio di un certo numero di individui. A quel punto la gente si divide: i più facinorosi e combattivi si dichiarano favorevoli alla guerra e vedono nel sacrificio di alcuni il giusto prezzo da pagare per un futuro migliore dell’intera comunità; altri, invece, trovano ingiustificato quello spargimento di sangue e ritengono che si possa vivere ugualmente bene anche alla vecchia maniera tribale. Le tensioni sociali che vengono generate da questa duplice corrente condizionano la storia di molte popolazioni, che, per periodi anche molto lunghi, è caratterizzata dall’alternanza di stati di guerra e stati di quiete, a seconda che prevalga l’una corrente o l’altra. Nella storia delle tribù ebraiche questa fase corrisponde al cosiddetto periodo dei Giudici, che va da Mosè a Saul. Talvolta la gravità della situazione è tale che anche i più convinti pacifisti non possono esimersi dall’impugnare le armi e mettersi al seguito di un condottiero, che, in certe circostanze favorevoli, riesce a farsi nominare re e a fondare uno Stato. Non sempre, tuttavia, la fondazione di uno Stato pone termine alle tensioni sociali, perché i vecchi pacifisti, ottenuto lo scopo di superare l’emergenza, continuano a sognare la vita tribale, mentre la nuova classe dirigente guarda avanti e punta sul consolidamento dello Stato e su una politica di forza.

Perché nasce uno Stato?
Secondo le nostre conoscenze, possiamo dare per certo che lo Stato nasce solo dopo la scoperta dell’agricoltura in risposta ai rapporti di forza che regolano la conquista e il possesso della terra. Anche se non abbiamo documenti storici al riguardo, possiamo ritenere scontato che, almeno nelle regioni più popolate, una terra poteva essere conquistata e conservata con l’uso della forza. Alla fine, il gruppo più forte coltiva la terra che ha conquistato e la difende dalla bramosia di eventuali altri gruppi pretendenti. Ma quando più tribù si uniscono sotto un solo capo, esse possono riuscire nell’impresa di conquistare un territorio tanto vasto da meritare il nome di Stato. Quando ciò avviene, il capo vittorioso divide il territorio conquistato coi capitribù che si sono schierati al suo fianco, i quali, a loro volta, dividono il proprio territorio coi capiclan e questi coi capifamiglia, mentre i perdenti vengono sterminati o resi schiavi. Si forma così la cosiddetta società duale, dove è facilmente riconoscibile una classe dominante, formata dai neo-proprietari conquistatori, e una massa sottomessa, formata dagli ex-proprietari sconfitti. Inizialmente e solo per difendere lo Stato da eventuali aggressioni, il capo mantiene un piccolo esercito al proprio servizio e impone e riscuote un tributo da tutti i sudditi, al fine di far fronte alle spese militari ma, di fatto, anche per imporre la propria volontà. Una volta costituitosi, anche quando l’azione di conquista è giunta al termine e non si profila all’orizzonte il pericolo di nuove guerre, lo Stato tende a conservarsi, con tutto il suo apparato di potere e la sua gerarchia sociale. A questo punto la popolazione tende a dividersi: i proprietari terrieri e chi ha qualche privilegio da difendere sostengono lo Stato, tutti gli altri vedono in esso un pessimo affare e ricordano con nostalgia la vita tribale, alla quale farebbero certamente ritorno se ne avessero la facoltà. Ma lo Stato non può permetterlo, perché senza di loro esso crollerebbe. Si afferma così il principio della ragion di Stato, in virtù del quale la forza militare viene usata per costringere ciascuno al proprio posto e indurlo a contribuire alla preservazione dello Stato stesso.

Nascita del pensiero politico
È in questo contesto che, in un luogo e in un giorno imprecisati, un pensatore, che non conosciamo, si pone la domanda: “vale di più la ragion di Stato o quella dell’individuo?” Su tale interrogativo, nel corso dei secoli si vengono a formare diverse teorie, che possono essere raggruppate in due grandi categorie: le teorie organicistiche (o strutturalistiche o olistiche), che affermano il primato della società sull’individuo, e le teorie individualistiche (o nominalistiche o atomistiche), che mettono al primo posto l’individuo. Per le prime, la società è come un grande organismo vivente, ben più importante dei singoli membri che la costituiscono; per le seconde, esistono soltanto gli individui e la società non è che una rappresentazione mentale. L’olismo esprime il punto di vista del principe, l’atomismo quello dei cittadini; il primo è monocratico e procede dall’alto in basso per deleghe successive, il secondo è democratico e procede dal basso in alto per rappresentanza, o in orizzontale nelle DD.

Il pensiero olista
Alla base del pensiero olista c’è l’idea che lo Stato ha una dignità personale e, in quanto persona, anche lo Stato ha una volontà e dei bisogni, anch’esso è spinto da motivazioni e ha degli scopi, solo che i bisogni e gli scopi dello Stato sono di gran lunga prevalenti rispetto a quelli del singolo individuo. Così, quando gli interessi dello Stato divergono da quelli dell’individuo, è quest’ultimo che deve adeguarsi e sottomettersi, sino al sacrificio della propria stessa vita. Alla fine, il cittadino si trova costretto a rinunciare alla propria sovranità personale, che viene assunta dallo Stato. Questa svolta viene chiamata olismo (cfr. cap. 9).

L’idea di Stato come persona
“Come gli individui, le nazioni hanno una testa, un cuore e uno stomaco” (KHANNA 2009: 28). Ancora oggi, dunque, continua ad essere attuale l’idea che lo Stato si comporta come un essere umano e, come tale, anch’esso è portatore di diritti, di doveri, di aspirazioni e di interessi. Si parla perfino di “psicologia statale” (KHANNA 2009: 28). Uno Stato pensa, decide, soffre, esulta, emana una legge, si siede al tavolo dei negoziati, cerca alleanze, stringe rapporti commerciali, dichiara guerra, si arma e si disarma, compra e vende, tesse trame politiche e sottoscrive diritti internazionali, come se fosse una persona in carne e ossa. Gli Stati Uniti acquistano la Louisiana dalla Francia e l’Alaska dalla Russia, allo stesso modo in cui il signor Rossi acquista un terreno dal signor Bianchi. “I trattati internazionali sono anzitutto contratti. Gli Stati, come gli individui, ne hanno bisogno per commerciare, navigare, difendere i propri beni, fissare i confini tra le rispettive proprietà, risarcire danni o incassare indennizzi, comprare terre, venderle o affittarle” (ROMANO 1998: 663). Ma c’è un problema: se nelle controversie fra individui si ricorre alla giustizia dello Stato, chi può fare da giudice nelle controversie internazionali? Fino al XVII secolo, questo ruolo è stato svolto, in qualche modo, dalle figure dell’imperatore e del papa, ma poi, con l’affermarsi del principio di sovranità dello Stato, le cose hanno cominciato a complicarsi. “Se ogni Stato è sovrano e non vi è autorità che possa imporre ai firmatari le proprie decisioni, i trattati durano esattamente quanto la convenienza delle parti alla loro osservanza” (ROMANO 1998: 664).
Che succede, dunque, quando due Stati litigano? In caso di disaccordo insanabile, per uno Stato non c’è altro modo di far valere il proprio punto di vista se non il ricorso alla forza. Così, “la guerra è un rischio a cui sono esposti permanentemente gli Stati per quanto bene ordinati” (POGGI 1998: 365). Quando due Stati si dichiarano guerra, masse di uomini impugnano le armi gli uni contro gli altri per delle ragioni che non riguardano necessariamente gli individui combattenti. Gli Stati sovrani, infatti, sono come uomini di livello superiore (chiamiamoli pure Superuomini, Titani o Esseri divini), i cui interessi sovrastano e annullano quelli degli individui umani in carne ed ossa. In pratica, in mancanza di un potere sopranazionale, gli Stati si comportano come si comportavano i gruppi tribali dieci mila anni fa: secondo il proprio arbitrio assoluto e senza dover rendere conto ad alcuno. A ben guardare, l’affermazione dello Stato implica un ritorno indietro nel tempo, quando gli uomini vivevano in gruppi tribali e senza legge, ma con un’importante differenza: le tribù erano in prevalenza nomadi e, in caso di pericolo, non esitavano a trasferirsi altrove; lo Stato, invece, ha un territorio ben delimitato e, in caso di pericolo, non può far altro che impugnare le armi. Per gli Stati, insomma, vale il principio hobbesiano dell’”homo homini lupus” e del principio di forza.

Perdita di ruolo dell’individuo
La più importante novità introdotta dallo Stato è la perdita dell’uguaglianza degli individui: se prima, sia nella famiglia che nella tribù, ogni individuo costituiva un valore assoluto ed era trattato sempre come un «fine», adesso egli deve fare i conti con la persona dello Stato, che lo sovrasta e gli impone la superiore logica del gruppo. Nello Stato non conta il singolo individuo: conta l’istituzione, la corporazione, il partito, l’azienda, la chiesa, la famiglia, la stirpe, il lignaggio, e l’uguaglianza individuale, che poi si traduce, in pratica, nel riconoscimento del diritto alle pari opportunità, è solo un lontano ricordo. Nel momento e nella misura in cui lo Stato chiede il sacrificio del singolo a vantaggio della suprema logica del gruppo e dell’istituzione, suonano le campane a morto per le uguaglianze individuali. Da questo momento, l’unità fondamentale dello Stato non è l’individuo, bensì il gruppo solidale, qualsiasi gruppo solidale, il cui proprotipo è la famiglia. Così come l’individuo è chiamato a piegarsi di fronte alla suprema autorità dello Stato, allo stesso modo egli dovrà sottomettersi davanti al superiore interesse della sua famiglia, che è rappresentato dalla volontà del capofamiglia. La logica della famiglia rispecchia e si identifica con quella dello Stato e, insieme, cancellano ogni ricordo dell’originaria condizione paritetica fra gli individui, a tal punto che la famiglia diviene la principale causa di discriminazione.

Disuguaglianza di nascita
Per Hayek, è insito nella stessa logica di famiglia che “il punto di partenza dei diversi individui, e quindi anche le loro prospettive, siano diversi” (1994: 340). Ne consegue, secondo lo studioso, che, essendo la famiglia un bene indiscutibile, anche le disuguaglianze che essa genera devono essere un bene. Legittimando le differenze alla nascita, Hayek giunge coerentemente ad affermare che l’U. di opportunità è “un ideale totalmente illusorio, ed ogni tentativo per realizzarlo concretamente potrebbe divenire un incubo” (1994: 289-90). Una volta accettata la disuguaglianza di nascita, come destino ineludibile dell’uomo civilizzato, si aprono le porte alla società duale, dove una sparuta minoranza di potenti famiglie domina sul resto della popolazione. Le disuguaglianze generate dalla famiglia vengono amplificate dalla presenza dello Stato e dalla gerarchia sociale su cui esso poggia.

Dall’individuo, al cittadino, alla persona
Nello Stato alcuni cittadini vengono esaltati fino a diventare monarchi e sovrani, altri vengono penalizzati, fino a diventare schiavi. Se prima ci si poteva riferire all’homo con i termini, generici e intercambiabili, di “individuo”, “essere umano”, “soggetto”, adesso si avverte la necessità di aggiungere i termini di “persona” e “cittadino”, che sono atti a differenziare i membri di una popolazione. Infatti, mentre il termine “individuo“ ha valore universale e si applica indistintamente e incondizionatamente a tutti gli esseri umani, li accomuna e li rende uguali, i termini “cittadino“ e “persona“ obbediscono ad una logica di potere e servono a distinguere gli esseri umani secondo una scala di valore: tutti sono individui, ma non tutti sono persone o cittadini.
Le idee di “persona“ e “cittadino“ devono intendersi come una diretta conseguenza della nascita dello Stato e della sua organizzazione sociale, religiosa, politica e militare. Esse si affermano allorché, di fronte a questioni di interesse generale, si comincia a cercare una risposta a domande del tipo: a chi spetta il potere di decidere? Chi deve sottomettersi? Alla fine, avviene che una minoranza si appropria di quasi tutte le risorse e si organizza allo scopo di rendere stabile la propria posizione di privilegio. Si affermano così le figure delle autorità sociali, politiche, militari, religiose e burocratiche, che, tutte insieme, vanno a costituire quella che verrà chiamata “classe dominante”. Nello stesso tempo una piccola schiera di letterati si mette al servizio di queste figure e contribuisce alla legittimazione ideologica del loro ruolo e alla diffusione, presso le masse subalterne, di un modello di virtù civica, che si compendia nei valori del sacrificio e dell’obbedienza alle legittime autorità.
Secondo Fromm, “così facendo, durante gran parte della storia una minoranza ha dominato la maggioranza” (1996: 17). Non sempre però i dominati si sono rassegnati a subire passivamente la loro condizione e, talvolta, sono riusciti ad organizzare delle efficaci azioni di protesta o di ribellione aperta, ottenendo alcune importanti concessioni. È nel quadro di queste lotte sociali che trovano reale applicazione i nuovi termini “cittadino“ e “persona“, l’uno con significato politico, l’altro religioso: sono gli appellativi che i vincitori applicano a se stessi per distinguersi dai perdenti, dai semplici sudditi o dagli schiavi.

Cittadino
Cittadino è un soggetto riconosciuto dallo Stato come portatore di doveri, ma anche di diritti, un soggetto giuridico accreditato di una qualche forma (per quanto risibile) di partecipazione al potere politico, e, comunque, sensibilmente privilegiato nei confronti dei non-cittadini. Nell’antica Atene, cittadini a pieno titolo sono tutti i maschi adulti nati da genitori ateniesi, i quali dispongono di donne e schiavi che lavorano per loro e possono dedicare molto del proprio tempo al governo della città, non essendo rappresentati da alcuno e godendo della pienezza dei diritti sociali e politici. Sotto l’Impero romano, il cittadino possiede alcuni diritti civili e giuridici, come quello di far carriera o di appellarsi all’imperatore, ma è privo di diritti politici e non partecipa in alcun modo al governo dell’Impero, non sceglie i propri rappresentanti, né può opporsi al regime; può invece chiedere «pane e divertimenti», e in ciò l’imperatore tende ad accontentarlo. “L’idea del cittadino come soggetto politico autonomo, libero ed indipendente dal potere, nasce nell’età delle Rivoluzioni americana e francese” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 52), ma dovrà passare molto tempo prima che il diritto di cittadinanza venga esteso a tutti i residenti di uno Stato. Per Kant, sono tre le prerogative del cittadino: la libertà da costrizioni esterne (ossia la facoltà di obbedire solo alle leggi alle quali egli abbia dato consenso), l’eguaglianza di fronte alla legge e l’indipendenza economica. Il povero e il servo sono esclusi dalla cittadinanza e dai relativi diritti. E oggi? Benché oggi il titolo di cittadino sia esteso a tutti i residenti stabili nel territorio di uno Stato democratico, in realtà, anche se non lo si dice, c’è ancora un netto divario tra i cittadini di serie A (per es., i parlamentari) e quelli di serie B (i “semplici” cittadini).

Persona
Lo stesso discrimine è rinvenibile nel termine persona. Già dall’origine etimologica (i termini, greco e latino, pròsopon e persona, designano semplicemente la maschera teatrale) si capisce che questo termine va applicato all’individuo in rapporto al ruolo che egli occupa nella società e, dunque, rappresenta un fattore tipicamente differenziante. “Essere una persona, o avere una personalità, significa letteralmente indossare una maschera” (ELLIOT, LEMERT 2007: 23), ossia calarsi in un ruolo artificioso e non proprio, che può variare a seconda delle circostanze e degli scopi che il soggetto si prefigge di conseguire. Il significato del termine cambia con l’avvento del cristianesimo, che lo usa per la prima volta con Tertulliano e poi coi Padri della chiesa in riferimento alla questione trinitaria, per indicare la pienezza dell’essere, ossia la sostanza divina, che ha in sé la causa e la ragione del proprio essere. È Saverino Boezio che, per primo, applica il termine all’uomo in quanto unico essere razionale, dunque, di livello superiore rispetto a qualunque altro animale, inferiore solo alla persona divina. Così sarà anche per Tommaso d’Aquino, il quale, però, collega, in qualche modo, la razionalità dell’uomo alla sua anima: l’uomo è persona perché ha un’anima che gli conferisce delle qualità nobilitanti, fra cui la razionalità. In definitiva, il termine “persona” serve dunque a spiegare la superiorità dell’uomo fra tutte le creature viventi.
I filosofi laici, come Cartesio e Kant, ritengono che la superiorità personale non richieda l’esistenza di un’anima, ma possa fondarsi unicamente sulla facoltà del pensiero e dell’autocoscienza, che sono specifici dell’uomo: l’uomo è persona perché. a differenza degli altri animali, pensa ed è autocosciente. Considerando queste posizioni riduttive, il cristiano ribadisce che, in fondo, ciò che conferisce all’uomo la sua «superiorità» “è il fatto di posserede un’anima spirituale” (BASTI 1995: 334) o, il che è lo stesso, l’essere fatto ad immagine di Dio, e questa rimane ancora oggi l’opinione prevalente in seno al cristianesimo. È in virtù di questa sua superiorità che è possibile riconoscere solo all’uomo il diritto di sovranità su se stesso. “Dire che qualcuno è una persona, vuol dire che ha il suo valore in se stesso; che ha dunque il diritto di svilupparsi liberamente; che non è naturalmente subordinato a nessun altro” (LECLERCQ 1965: 50). Come persona, l’uomo è “padrone del proprio destino, sovrano nel senso che decide della sua vita e ne decide da solo” (LECLERCQ 1965: 51).
Così stando le cose, per il cristiano gli uomini dovrebbero essere uguali in dignità e diritti: tutti fratelli, tutti sovrani. Ma così in pratica non è, perché un individuo, che non è membro di una chiesa, può non essere ritenuto persona e può essere costretto con la forza ad entrarvi oppure essere soppresso, come si fa con un animale pericoloso. Tale era la realtà dell’Occidente, almeno fino alla scoperta e alla conquista del Nuovo Mondo. È vero che oggi la posizione della chiesa cattolica al riguardo è notevolmente cambiata ed è anche vero che essa oggi proclama che tutti gli uomini sono “persone” a pieno titolo. Ma solo a parole! Se così fosse davvero, non avrebbe alcun senso mantenere la divisione fra le diverse chiese. Il fatto che ogni chiesa rimane separata da tutte le altre dimostra che, in fondo, ciascuna ritiene, anche se non lo dice espressamente, di essere superiore alle altre e, per estensione, anche i propri membri si ritengono superiori, cioè le uniche “persone” a pieno titolo. In definitiva, tutti sono persone, ma non tutti lo sono allo stesso modo.

La posizione dell’individualismo
Nello stesso momento in cui, in obbedienza ad una logica del potere, entrano nell’uso i nuovi attributi di “cittadino” e “persona”, cade in discredito il concetto di “individuo“ e tutto ciò che questo termine sta a significare. Ebbene, secondo l’I.smo, è arrivato il momento di restituire all’individuo il suo primato originario. Lo Stato è accettabile solo se svolge una funzione di servizio per ogni singolo individuo e non di questo o quel gruppo, e nemmeno della «maggior parte». Come ha osservato Nozick, uno Stato che chiedesse sacrifici e, peggio ancora, la vita, ad un individuo, a vantaggio anche della «maggior parte», sarebbe uno Stato ingiusto; esso, infatti, non tiene conto che, per quell’individuo, la sua è l’unica vita che possiede e nessun bene comune può avere maggiore valore di quella. Per l’I.smo, tutto il significato che è contenuto nei termini “persona” e “cittadino” dev’essere ricondotto e sussunto nel termine “individuo”: ogni individuo è insieme persona e cittadino, ogni individuo è sovrano, ogni individuo non è meno importante dello Stato.

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