martedì 21 luglio 2009

12. Il credo individualista

Nelle pagine precedenti abbiamo sostenuto che:

1. L’individuo è portatore di bisogni.

2. Ogni individuo è geneticamente diverso da ogni altro, unico, irripetibile e sovrano.

3. I DNA individuali non sono valutabili e, pertanto, devono essere considerati equivalenti.

4. Perciò vanno riconosciute a ciascun individuo un’uguaglianza di nascita e pari opportunità.

5. Ogni individuo è potenzialmente capace di pervenire ad un’autonomia di giudizio.

6. Lo Stato deve incoraggiare e promuovere l’autonomia individuale, anche attraverso un valido percorso educativo, il libero accesso all’informazione e una variegata offerta di lavoro.

7. Le risorse della terra e i prodotti dell’ingegno umano appartengono non solo ai soggetti produttori, ma anche all’umanità intera.

8. Lo Stato non è un’entità autonoma e indipendente dagli individui che lo compongono.

9. Scopo primario dello Stato è la soddisfazione dei bisogni di ciascun individuo membro.

10. Questo scopo si raggiunge attraverso la corresponsione di un reddito minimo.

11. Lo Stato dovrà anche vigilare sul rischio di prevaricazioni di un individuo sull’altro, intervenendo attivamente sia per prevenire che per correggere.

12. Ad ogni individuo va riconosciuto il diritto di vivere in modo dignitoso e l’opportunità di scrivere liberamente il proprio progetto di vita.

13. Ogni individuo dev’essere ritenuto responsabile delle proprie azioni e a ciascuno dev’essere dato secondo i suoi meriti.

14. Le diverse opinioni vanno rispettate, perché è impossibile dimostrare in modo incontrovertibile che una verità sia più vera di un’altra.

15. Da ciò deriva il diritto alle libertà di pensiero, di parola, di iniziativa e di associazione.

Questi punti costituiscono quello che può essere chiamato credo individualista.

11. I diritti individuali

Se non riconoscessimo il valore dell’individuo, non potremmo giustificare alcun diritto fondamentale dell’uomo. A ben guardare, infatti, i diritti derivano dai princìpi dell’individualismo: dal fatto che ogni individuo è un essere autonomo, unico e irripetibile (I.smo ontologico) consegue il diritto di uguaglianza; dal fatto che ogni individuo è una persona morale, capace di discernere il bene dal male e di assumersi responsabilità (I.smo etico), deriva il diritto alla libertà; dal fatto che i veri attori sociali non sono i gruppi o gli Stati, bensì gli individui (I.smo metodologico), deriva il diritto di sovranità individuale. Dai diritti suddetti, che chiamiamo fondamentali, traggono origine tutti gli altri diritti: prima di tutto quello alla vita, che è il diritto personale per eccellenza, e poi quelli sociali (istruzione, lavoro, salute) e quelli politici (libertà di parola, di associazione, di voto, di partecipazione alle questioni d’interesse pubblico, ecc.), che sono riconosciuti dalla nostra Costituzione (I.smo personale, sociale e politico). Nel presente capitolo cercheremo di chiarire il rapporto che lega i diritti democratici ai princìpi dell’I.smo.

Origine del diritto
Abbiamo detto che ciascun individuo nasce unico, eguale nei bisogni e potenzialmente libero e sovrano. Ma perché queste sue caratteristiche, chiamiamole biologiche o naturali, dovrebbero essergli riconosciute come diritto? Anche gli animali nascono unici, uguali, liberi e sovrani, eppure nessun diritto viene loro riconosciuto in natura. Ha senso dire che il coccodrillo non ha il diritto di predare la zebra perché essa ha il diritto di vivere in pace? No, nel mondo animale non ha senso parlare di diritti, e la ragione è semplice: gli animali non hanno né la coscienza di essere soggetti di diritti, né l’idea di diritto, e, senza tali presupposti, il diritto non esiste. Se il diritto non è, e non può essere, un prodotto naturale, per la stessa ragione, è da ritenere improbabile che esso si sia sviluppato all’interno di un istituto naturale per eccellenza qual è la famiglia, dove opera il supremo principio di forza, sia pure mitigato dai legami sessuali e parentali.
L’idea di diritto si afferma invece quando, dopo la scoperta dell’agricoltura, molti gruppi familiari si trovano a vivere a stretto contatto e per un tempo indefinito. Solo in queste condizioni i capifamiglia possono avvertire la necessità di fissare delle norme di comportamento atte a consentire una pacifica convivenza. Il diritto è, dunque, un prodotto culturale, che prende forma nella mente dei capifamiglia nel momento in cui essi acquistano coscienza che molti dei loro problemi e delle loro sofferenze, e perfino la loro morte, possono essere cagionati dai propri vicini. La prevaricazione, la prepotenza e la sopraffazione vengono allora viste come indebite ingerenze dell’uomo sull’uomo e si comincia ad avvertire, e ad esprimere attraverso un linguaggio sempre più evoluto, l’esigenza di giustizia, di princìpi etici e di regole comportamentali, che si traducono, in pratica, nella disapprovazione del furto, della menzogna, del mancato rispetto della parola data e dell’omicidio. È così (e come altrimenti?) che gli uomini adulti maturano il proprio diritto a non essere deprivati dei propri beni e della propria vita. Dovrà passare molto tempo, tuttavia, prima che si comincino ad estendere questi diritti a tutti i membri di una stessa famiglia (donne, anziani e bambini), e ancora di più prima che si cominci a vedere anche gli animali come soggetti di diritto.
La svolta avviene quando alcuni adulti si chiedono per la prima volta «che diritto abbiamo noi di trattare le nostre mogli e i nostri figli come strumenti?». Da quel momento, quell’inquietante interrogativo non cesserà di riecheggiare nelle menti di altri capifamiglia e anche di altri adulti più giovani e più deboli, finendo per creare le basi di quello che sarà il diritto moderno. Ne deriva che siamo noi adulti gli artefici del diritto. Siamo noi adulti che consideriamo inopportuno danneggiarci a vicenda, che rifiutiamo il principio di forza, che reputiamo ingiusto trattare gli esseri viventi (donne, anziani, bambini e, perfino, feti ed embrioni) come se fossero cose. La storia ci insegna infatti che, di tanto in tanto, qua e là, qualche autorevole legislatore ha voluto elevare a dignità di legge questo o quel principio etico, che andava emergendo dal buon senso comune ed era in uso da tempo. Il diritto moderno altro non è, in fondo, che il prodotto di innumerevoli proclamazioni di questo tipo, ossia di elevazione a dignità di legge di sentimenti etici diffusi fra gli adulti, anche se mai, fino a quel momento, espressi in modo esplicito e formale. Nonostante la molteplicità delle forme in cui il diritto si è manifestato nel corso della storia, è possibile individuare un piccolo numero di diritti primari e universali.

Il diritto di vivere
Il più elementare dei diritti è il diritto alla vita biologica (intesa come puro espletamento delle funzioni di tipo vegetativo e animale), che, in ultima analisi, corrisponde alla soddisfazione dei bisogni primari. Fino a tempi recenti, il diritto alla vita è stato sistematicamente negato in nome della ragion di Stato, della patria potestà o del più banale principio di forza, per non parlare dei sacrifici umani praticati da certi popoli nel corso di riti religiosi propiziatori. Il più delle volte si è trattato di semplici fatti di costume, anche se non sono mancate le enunciazioni di principio, come quella, delirante, di Nietzsche, secondo la quale “la maggioranza degli uomini non ha diritto all’esistenza, ma costituisce una disgrazia per gli uomini superiori” (1994: 480). Oggi, per fortuna, la posizione di Nietzsche appare nettamente minoritaria e la stragrande maggioranza delle persone civili è disposta a riconoscere il diritto universale alla vita, almeno a parole. Nei fatti, tuttavia, il diritto alla vita biologica continua ad essere negato: si pensi a tutta la gente che ogni giorno muore nel mondo per miseria, fame, mancanza di cure, ignoranza, criminalità, persecuzioni, genocidi, guerre, e via dicendo. Ancora ai giorni nostri, il diritto alla vita è riconosciuto e rispettato seriamente solo nei paesi più evoluti e civili.
Ma perché uno Stato dovrebbe riconoscere questo diritto? La risposta è banale: perché nessuno chiede di nascere. Ogni individuo è chiamato alla vita da una coppia di adulti con l’avallo, esplicito o implicito, dello Stato. Non esiste un diritto “naturale” alla vita, così come non esistono altri diritti naturali, i diritti essendo solo acquisizioni culturali. Ebbene, come si pone al riguardo la cultura individualista? Quando sta per venire al mondo un bambino, la coppia dei genitori (e lo Stato) possono rifiutarlo e interrompere la gravidanza, oppure accettarlo come figlio e cittadino, attraverso una decisione unilaterale, libera e responsabile, che implica, a vantaggio del neonato stesso, il riconoscimento incondizionato di quei diritti che i suoi genitori rivendicano per se stessi. L’I.smo non riconosce un diritto assoluto alla nascita. Lo zigote non è un soggetto di diritto e non lo è nemmeno l’embrione, almeno fino a quando non abbia acquisito sembianze umane. Entro questo periodo ai genitori dovrebbe essere concessa la facoltà di interrompere una gravidanza indesiderata, a meno che non voglia subentrare lo Stato nell’assunzione di quella responsabilità, ma, nel momento in cui accettano quel bambino, essi si impegnano a riconoscergli il diritto alla vita. Lo zigote e l’embrione traggono il proprio diritto alla nascita e alla vita dalla volontà dei genitori e, in seconda battuta, dal consenso dello Stato, che se ne fa garante in ultima istanza.

Il diritto di dignità
Il diritto alla vita biologica, tuttavia, soddisfa solo la componente animale dell’uomo, ma non risponde ai suoi bisogni di tipo culturale. Di questi bisogni si prendono cura solo i paesi più civili, dove si parla di diritto ad una vita dignitosa. Per esempio, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si legge: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata” (art. 1). Ma che cosa intendiamo per “dignità”? A questo termine afferiscono tutte le qualità di cui l’uomo è dotato allo stato potenziale e che lo caratterizzano. In estrema sintesi, la vita dignitosa è quella dell’uomo autonomo e libero.

Il diritto di morire
Secondo l’I.smo, il diritto alla vita non può prescindere dall’evidente ineluttabilità della morte, ed è perciò necessario contemplare anche un diritto ad una morte dignitosa. Nella logica individualista si deve considerare morto un individuo che abbia perso irrimediabilmente la facoltà di avere rapporti sociali, sia pure ad un livello minimo. In quest’ottica, tenere in vita un essere umano in stato di coma vegetativo irreversibile non è un gesto umanitario e pietoso, è piuttosto un atto di crudeltà. Consapevole che la morte è il destino naturale di ogni essere vivente, l’I.smo è disposto a riconoscere anche il diritto ad una “buona morte”, o eutanasia, in tutti i casi in cui, per un motivo o per l’altro, i rapporti sociali siano divenuti impossibili a causa di un’infermità e non ci siano più ragionevoli speranze di un loro recupero.

Il diritto di uguaglianza
Il diritto all’uguaglianza. Si immagini di osservare al microscopio due cellule appena fecondate, dalle quali prenderanno forma rispettivamente un santo e un criminale. Dovremo ammettere che non c’è alcun modo di valutare un individuo dal suo DNA e ne concluderemo che tutti gli individui devono essere considerati geneticamente equivalenti. Il concetto di uguaglianza naturale è stato colto già nell’antichità da pensatori che pure non conoscevano il DNA. Secondo Tucidide, per esempio, “non bisogna credere che un uomo sia molto diverso dagli altri” (I 84,4). Per il sofista Ippia di Elide, gli uomini nascono uguali, ma sono resi diversi dalle leggi, che sono un prodotto arbitrario della cultura umana (in ROSEN 1999: 64). Gli antichi, dunque, avevano intuito che alla nascita gli uomini sono equivalenti (non usiamo il termine “uguali” perché sappiamo che gli individui sono diversi e unici). Dall’equivalenza naturale dovrebbe derivare il riconoscimento alla pari dignità e all’uguaglianza, ma, come abbiamo avuto modo di osservare, se il diritto all’uguaglianza trova facile applicazione nelle società semplici, di tipo familiare o tribale, dove non si fa fatica a considerarlo come un diritto naturale, lo stesso non vale nelle società complesse e negli Stati, dove prevale la logica del gruppo. È giunto il momento di chiederci: come dobbiamo intendere questo dititto, oggi?
Abbiamo visto che, sulla faccia A della lavagna genetica, la natura ha fissato alcuni codici comportamentali, assai semplici e limitati, lasciando all’individuo il compito di scrivere sul lato B della stessa lavagna il proprio progetto di vita. Un individuo diventa santo o criminale non solo perché ha un certo DNA, ma anche perché è vissuto in un certo ambiente e ha voluto percorrere una strada piuttosto che un’altra: ambiente e volontà personale sono le due principali cause delle disuguaglianze. Ora, mentre ritiene giustificate le disuguaglianze che derivano dall’impegno personale, l’I.smo ritiene deprecabili quelle di derivazione ambientale e si adopera allo scopo di realizzare forme di governo che garantiscano pari opportunità a tutti i cittadini.
Uno Stato individualista fa quattro cose: primo, riconosce un’uguaglianza di nascita; secondo, offre pari opportunità a tutti; terzo, promuove la massima valorizzazione di ciascun individuo; quarto, premia i migliori. Partendo dalla convinzione che l’individuo costituisce la risorsa fondamentale di una società, l’I.smo ritiene che compito primario di uno Stato sia quello di mettere ciascun cittadino nelle condizioni migliori perché possa realizzare liberamente il proprio progetto di vita, sia rimuovendo i privilegi per nascita, sia promuovendo ogni iniziativa atta a stimolare le sue potenzialità individuali. Consapevole dell’importanza dell’ambiente per un adeguato sviluppo dell’individuo, l’I.smo riconosce a tutti pari diritto all’educazione e allo studio, oltre al libero accesso a tutte, dico tutte, le forme di informazione.
Secondo l’I.smo, il diritto di uguaglianza non si applica a ciò che dipende dalla libera volontà, dall’intraprendenza, dal coraggio, dalla fatica, dal lavoro, dalla perseveranza, dalla virtù e dall’intelligenza di ciascuno: ciò che l’individuo scrive di proprio pugno sulla propria lavagna genetica va adeguatamente compensato. L’uguaglianza individualista è, dunque, solo di partenza, non di arrivo. La società ideale per l’I.smo è, tuttavia, quella in cui, alla fine, le differenze individuali sono legate solo a fattori genetici e personali, e per niente a fattori ambientali.

Il diritto di libertà
Il diritto alla libertà. Il diritto alla libertà poggia sul seguente assioma: non c’è alcun modo di dimostrare con certezza che il progetto di vita di un individuo sia superiore o inferiore a quello di chiunque altro. Per questo, ciascuno dev’essere reso e lasciato libero di essere se stesso. Secondo l’Ismo, la libertà è un attributo irrinunciabile per un uomo e, paradossalmente, essa costituisce l’unico valore dove non è previsto il diritto di libertà. “Il principio della libertà non può ammettere che si sia liberi di non essere liberi: non è libertà potersi privare della libertà” (MILL 1997b: 118). Riconoscere ad un individuo il diritto a non essere libero equivarrebbe a riconoscergli il diritto a non essere uomo. “La libertà –secondo Godwin– è la scuola dell’intelletto” (1997: 157), dove il soggetto ha modo di potenziare e affinare le facoltà della propria mente, sì da divenire idoneo a realizzare il proprio progetto di vita. Touraine parla di “diritto che ciascun essere umano ha di dare un significato alla propria esistenza” (1998: 154). Il diritto alla libertà conferisce all’uomo quella dignità che gli compete, perché la libertà è “una qualità specificamente umana” (DONNO, GUERRIERI, IURLANO 1987: 126). Senza libertà l’uomo non è compiuto.
Il fatto è che l’uomo non nasce libero, ma deve conquistare questa condizione con l’aiuto determinante di altri. Da ciò deriva l’importanza dell’ambiente esterno e della società. Bisogna educare l’uomo a diventare vero uomo, a coltivare l’intelletto, ad essere indipendente, a sviluppare le proprie facoltà critiche e creative e a ragionare autonomamente con la propria testa. “L’indipendenza è il più prezioso diritto di nascita dell’uomo, quello che ognuno di noi dovrebbe amare al di là di ogni possedimento terreno” (GODWIN 1997: 173). Scondo l’I.smo, lo Stato non deve limitarsi semplicemente a rimuovere gli impedimenti esterno alla libertà individuale, ma deve anche preocccuparsi di promuovere, attivamente e con ogni mezzo possibile, l’individuo, e assicurargli un’educazione e condizioni di vita dignitose. L’I.smo definisce “libero” l’uomo che abbia conquistato un’autonomia di pensiero e sia in grado di esercitarla.

Il diritto di informazione
Il diritto all’informazione. L’uomo non può essere ritenuto responsabile delle sue azioni se non dispone di adeguate informazioni e conoscenze. Per esempio, non è bene che la cura di una pianta o di un animale o di un bambino venga affidata ad una persona che non conosce i bisogni di quella pianta, di quell’animale o di quel bambino. A rigore, non si potrebbe nemmeno essere responsabili nei confronti di se stessi se non si ha una sufficiente conoscenza della propria persona. Ora, se uno non è responsabile delle proprie azioni, non può nemmeno essere ritenuto libero e, viceversa, non si può essere liberi se non si è capaci di assumersi responsabilità. Non c’è libertà senza responsabilità, non c’è responsabilità senza conoscenza, non c’è conoscenza senza informazione. Pertanto, l’I.smo esige che il sistema educativo-scolastico-informativo di uno Stato sia di qualità eccelsa e accessibile a tutti, perché da esso dipende la libertà responsabile dei cittadini, e anche la loro “umanità”. L’offerta di informazione, da sola, non basta a rendere libero un individuo: occorre anche la volontà personale di informarsi. L’informazione va acquisita con l’impegno e la fatica, e l’I.smo considera uomini mancati coloro che, pur potendo informarsi su ciò che li riguarda e conquistare un’indipendenza di giudizio, non lo fanno e preferiscono delegare ad altri ogni responsabilità. Costoro condurranno un’esistenza di tipo animale e non faranno del bene né a se stessi, né agli altri. In una società individualista, tuttavia, essi saranno tollerati e rispettati, anche se non apprezzati.

Il diritto di un Minimo garantito
Il diritto al minimo. Benché, nella storia dei diritti umani, notevoli siano stati i progressi registrati nell’ultimo secolo e mezzo, c’è ancora una grande conquista che aspetta di essere colta, un importante traguardo che dobbiamo ancora raggiungere: il riconoscimento effettivo del diritto incondizionato alla vita dignitosa di tutti gli esseri umani, che chiameremo, con Fromm, “reddito minimo garantito” (1996: 116). Il reddito minimo non è da confondere con sovvenzioni, sussidi e atti caritatevoli di ogni ordine e grado, ma deve rappresentare un vero e proprio diritto inalienabile, una risposta concreta da parte dello Stato ai diritti del cittadino. “L’individuo –sostiene Fromm– deve essere protetto dalla paura e dalla necessità di sottomettersi alla coercizione di chicchessia, e per raggiungere tale scopo la società dovrà fornire, gratuitamente per tutti, i mezzi atti a soddisfare le necessità elementari di esistenza materiale in fatto di alimenti, alloggio e vestiario” (1996: 101). Uno Stato è buono solo se è in grado di dare piena attuazione a questo diritto fondamentale. Secondo Atkinson, “la giustificazione del reddito minimo è che esso è un complemento essenziale della libertà politica e giuridica; senza un livello minimo di risorse, la libertà non può essere effettiva” (1998: 80).
Qualcuno obietterà che stiamo proponendo sogni irrealizzabili e che ci stiamo muovendo sul terreno della pura utopia, ma così non è, almeno non lo è necessariamente, se non altro per i paesi democratici più evoluti del pianeta, che, certamente, dispongono dei mezzi necessari per raggiungere lo scopo. La proposta avanzata da Atkinson si basa su due punti fondamentali: primo, l’introduzione di un’unica aliquota d’imposta IRPEF del 35%; secondo, la sostituzione dell’attuale sistema previdenziale con l’introduzione, per l’appunto, di un reddito minimo garantito, da corrispondere sotto forma di crediti d’imposta (1998: 3). In altri termini, tutti i membri della popolazione presenterebbero la propria denuncia dei redditi e mentre i percettori di redditi superiori ad un certo limite pagherebbero il 35% di tasse sui loro profitti, coloro che hanno un reddito inferiore riceverebbero un rimborso IRPEF fino ad un ammontare pari al reddito minimo prestabilito: semplice e geniale. Secondo Atkinson, questa proposta è “praticabile”, e noi concordiamo con lui.

Il diritto di sovranità
Il diritto alla sovranità. Dal diritto alla libertà deriva quello alla sovranità, che può essere così espresso: in quanto persona libera, a ciascuno dev’essere riconosciuta la piena sovranità su se stesso. “Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società –scrive Mill– è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano” (1997b: 13). In pratica, nel privato ciascuno risponderà alla sua propria coscienza, come suggerisce Montaigne (1988: 299) con queste belle parole: “Io ho le mie leggi ed il mio tribunale per giudicare di me, e mi ci rivolgo più che altrove. Restringo bene secondo gli altri le mie azioni, ma non le intendo che secondo me. Non ci siete che voi che sapete se siete vili e crudeli, o leali e devoti; gli altri non vi vedono affatto, vi indovinano per congetture incerte; vedono non tanto la vostra natura quanto i vostri artifici. Così che non vi attenete alla loro sentenza; attenetevi alla vostra”. La sovranità individuale non è, tuttavia, da intendere in senso assoluto. Solo un dio può essere pienamente sovrano, mentre all’individuo, che si muove nell’ambito del contingente, potrà essere concessa solo una sovranità relativa, che non può e non deve prescindere dalla dimensione sociale del soggetto. La sovranità di un individuo finisce là dove inizia la sovranità di un suo simile ed è prerogativa dello Stato di vigilare affinché non vi siano prevaricazioni di alcun tipo di uno sull’altro.

Limiti al diritto di sovranità
A causa della dimensione sociale dell’individuo, la sovranità personale non può essere illimitata, sfrenata e selvaggia, ma deve fare i conti con due importanti realtà: l’analogo diritto degli altri e la stessa esistenza degli altri. Quanto al primo punto, è bene che ciascuno abbia tanta sovranità quanta ne desidera, purché non rechi danno ad altri. E fin qui, credo, tutti siamo disposti a concordare. Meno scontata è, invece, la condivisione del secondo punto, e cioè che la pura e semplice esistenza degli altri debba costituire un limite al nostro diritto di sovranità. Questo principio merita qualche parola di commento e spiegazione.
Vorrei partire da un fatto evidente, e cioè che nulla può essere realizzato dall’individuo che non venga dalla società e nessuna realizzazione individuale può acquistare una qualche rilevanza pubblica se non per mezzo di altri. In altri termini, non c’è impresa o successo individuale che non sia da ricondurre anche al merito di tanti altri. Perfino le più grandi invenzioni acquistano un significato e diventano fruttifere solo nella misura in cui c’è una massa di utenti che le utilizza. È vero che l’inventore del computer è in credito nei confronti di quanti si servono del prodotto del suo ingegno, ma anche lui deve qualcosa a quella massa di utilizzatori di chip, senza dei quali la sua creatività sarebbe priva di senso. In definitiva, tutto ciò che riusciamo a fare lo dobbiamo agli altri ed è inconcepibile una libertà assoluta, che possa prescindere dalla nostra dimensione sociale e dalla pura e semplice presenza degli altri.
Secondo l’I.smo, tutti i beni prodotti dagli uomini devono essere considerati, in ultima analisi, patrimonio dell’umanità, anche se bisogna riconoscere al singolo individuo la facoltà di servirsi in modo esclusivo dei frutti del suo ingegno e del suo lavoro. Insomma, agli esseri umani non si addice la libertà incondizionata e nulla, nemmeno le ricchezze che un individuo ha accumulato meritatamente, possono essere ritenute una sua proprietà assoluta, né possono essere utilizzate in totale libertà. Al ricco, per esempio, non dovrebbe essere riconosciuto il diritto di demolire le proprie case o distruggere i propri beni, per suo puro capriccio e senza una ragione oggettivamente plausibile, e neppure dovrebbe essergli concesso di usare il proprio denaro per costruire strumenti di distruzione e di morte, o in modo di danneggiare l’ambiente pubblico e depauperarlo, o per realizzare opere che denotino un chiaro disprezzo per il genere umano, come una grande e lussuosa residenza per suini, provvista di camere affrescate con vista sul mare, ristorante, ospedale, centri di bellezza e di svago, e perfino cimiteri dedicati a questi nostri compagni di viaggio, con tutto il rispetto per i suini.

Il diritto di equità
Il diritto all’equità. Secondo l’I.smo, lo Stato non deve favorire solo gli interessi di pochi grandi gruppi, ma deve mettersi al servizio dei singoli individui e comportarsi nei loro confronti come un buon padre di famiglia, che non nega a nessuno dei suoi figli, e per nessuna ragione al mondo, il diritto ad una vita dignitosa. Se poi il cittadino non si limita a vivere da parassita, ma si impegna in attività produttive di pubblico interesse, lo Stato dovrà prevedere un’adeguata retribuzione, che, si badi bene, non sostituisce il “minimo”, ma vi si aggiunge. Così i proventi di ciascun individuo risulterebbero costituiti da una duplice fonte: la prima è il “minimo” che la società gli riconosce incondizionatamente, la seconda è la retribuzione che si è meritata col suo lavoro. Solo questa seconda entrata dovrebbe poter essere usata in modo libero e solo essa dovrebbe essere sottoposta alla pressione fiscale.
In una logica individualista, i contratti di lavoro dovrebbero essere individualizzati, nel senso che andrebbero sempre stipulati fra due individui: uno che chiede, l’altro che offre. Anche il merito andrebbe valutato a livello individuale, secondo criteri prestabiliti e noti a tutti. Non c’è ragione alcuna per fissare un tetto ai profitti da lavoro, ma non si debbono ignorare i limiti di natura strettamente biologica di ciascun individuo e bisogna fare attenzione al rischio di possibili tentativi d’inganno. Così, se uno dirà che lavora 24 ore su 24, siamo certi che mente, perché si sa che nessuno può fare a meno del sonno e del riposo. Allo stesso modo, il grado d’impegno personale può condurre a performance molto diverse, ma non così diverse da fare di un uomo un dio. Per quanto brillante possa essere un individuo, infatti, egli non potrà mai superare i limiti della sua “umanità”. Così, c’è da dubitare quando qualcuno osi affermare che le sue capacità produttive superano di mille volte quelle di un suo simile, per il semplice fatto che in natura simili differenze non sono osservabili, né dimostrate. L’I.smo esige che gli individui vengano remunerati secondo condizioni di equità, cioè in rapporto ai loro meriti effettivi, ed entro un range compatibile con le differenze individuali biologiche e personali, valutate con metodi il più possibile scientifici.

Equità e capitalismo
Una delle consuetudini più diffuse nei paesi capitalisti è che gli averi del padre vengono trasmessi ai figli per puro diritto di nascita. Ciò si oppone non solo al principio del merito, che è sempre personale, ma anche ai più elementari principi di efficienza produttiva. Infatti, se un individuo è riuscito a creare, col suo lavoro e le sue capacità, un’azienda da mille miliardi di euro, non è detto che suo figlio provi attrazione per quell’azienda o sia in grado di amministrarla. Ora, è giusto che un impero economico venga lasciato nelle mani di un incapace, chiunque egli sia? Secondo la logica capitalistica si, secondo quella individualistica no. Secondo l’I.smo, alla morte del suo creatore, ogni patrimonio economico diventa patrimonio pubblico e lo Stato vigilerà affinché venga affidato alle persone più meritevoli. L’I.smo segue una logica individuale, laddove il capitalismo è legato ad una logica familiare e di gruppo. Ora è proprio in questa logica di gruppo che dobbiamo vedere la principale fonte di iniquità: il nostro capitalismo tollera che il futuro degli individui venga pesantemente condizionato dalle proprie famiglie d’origine, nel bene e nel male, col risultato che le ricchezze vengono distribuite in modo non corrispondente alle effettive differenze biologiche e culturali degli individui.
Il capitalismo è iniquo nella misura in cui premia o penalizza i gruppi anziché gli individui e la conseguenza è che “l’1% della popolazione possiede il 40% della ricchezza netta totale, ma non possiede certo il 40% del quoziente d’intelligenza totale” (1997: 266). Dall’iniqua distribuzione delle risorse derivano fenomeni, quali la povertà e l’opulenza estrema, le negazioni dei diritti e le ingiustizie. Ora, quando un sistema è iniquo, esso dev’essere necessariamente mantenuto in piedi con la forza: l’imponente apparato militare degli Stati Uniti d’America è lì a dimostrarlo. Siamo condannati a convivere col rischio di terrorismo e di guerre, e un futuro incerto incombe sull’umanità. Ebbene, alla base di tutto questo c’è anche l’iniquità del sistema capitalistico.

10. Il pensiero individualista

Nel corso dei secoli, accanto all’olismo, a fatica ha fatto sentire la sua voce anche una minoritaria tradizione individualistica, che affonda le sue radici in tempi relativamente lontani, anche se ha acquistato autorità solo di recente, giungendo a maturazione solo negli ultimi due-tre secoli, dopo un’incubazione stata molto lunga e stentata.

Le due concezioni classiche dell’individualismo
L’individuo come valore in sé si afferma per la prima volta in Grecia (V-IV secolo a.C.) con Socrate, il quale addita nell’anima l’essenza dell’uomo, nella conoscenza la vera virtù, nell’autodominio e nella libertà interiore i principi cardini dell’etica, ma soprattutto con i sofisti, i quali vanno diffondendo un pensiero, che fa di loro i primi veri individualisti della storia. I sofisti riconoscono i diritti democratici e chiamano alla partecipazione politica tutti i cittadini, poiché credono nelle abilità (tecnica, politica e amministrativa) del singolo e pensano che, se opportunamente educato, ogni cittadino possa produrre qualcosa di grande. Essi, tuttavia, rappresentano la parte minoritaria, e comunque perdente, dell’élite intellettuale ellenica e il loro modello culturale viene travolto, insieme alla democrazia, dal ritorno imperioso delle monarchie. In pratica, i greci non riescono a concepire il valore dell’individuo-in-sé e dell’I.smo universale. Solo al cittadino, infatti, essi riconoscono la pienezza dei diritti democratici, ma il cittadino non brilla di luce propria e rimane, in qualche modo, subordinato alla polis: senza polis non c’è cittadino e nemmeno diritti democratici. Nello stesso periodo, anche in Palestina si afferma l’individuo, ma in modo profondamente diverso. In questo caso ogni essere umano acquista valore in quanto creato da Dio a propria immagine e la sua principale virtù viene indicata nella sottomissione alla volontà del Creatore e alla sua legge, ossia nell’obbedienza ai suoi ministri.
Da queste, che possiamo chiamare le due concezioni classiche dell’individualismo, emergono due diverse figure di individuo. Nel caso dei greci, l’elevazione dell’uomo è raffigurata nel mito di Prometeo, il titano che ruba il fuoco (simbolo di conoscenza e competenza) agli dèi per darlo agli uomini. Anche Adamo ed Eva, mangiando il frutto proibito, acquisiscono la conoscenza divina. La differenza è che i greci esultano davanti a quella che considerano una conquista dell’uomo, mentre gli ebrei la bollano come peccato di superbia. Se i sofisti possono essere considerati precursori del pensiero illuminista e giusnaturalista, da cui prenderanno origine le costituzioni moderne e le proclamazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli ebrei, invece, preparano il terreno al cristianesimo e allo spiritualismo. Attribuendogli un’anima personale, il cristianesimo eleva l’individuo ad un livello divino e ne fa un soggetto unico, prezioso e sovrano, com’è Dio, ma solo in teoria. In pratica, la chiesa che si va ad affermare finisce per coartare l’individualità sotto una pesante coltre dogmatica e sotto i supremi principi dell’obbedienza gerarchica e dell’appartenenza. L’individuo è persona solo in quanto membro della chiesa e solo a livello teorico.

Antichità e medioevo
In generale, il riconoscimento del diritto di ciascuno di tracciare il proprio progetto di vita, in piena libertà e anche in opposizione al mondo esterno, quello che abbiamo chiamato Io in senso pieno, rimane sostanzialmente estraneo a tutto il pensiero antico-medievale, anche se ciò non impedisce a personaggi come Seneca, Marco Aurelio e soprattutto Sant’Agostino di impegnarsi in percorsi introspettivi, che sono abbastanza insoliti per il loro tempo. Un altro esempio di affermazione dell’Io in età medievale ci viene offerto da Pietro Abelardo (1079-1142), il quale, venendosi a trovare in conflitto con l’opinione pubblica prevalente, continua a sostenere le sue ragioni e, pur consapevole di uscire fuori dagli schemi consueti, rimane fermo sulle proprie idee e rivendica la propria autonomia di pensiero. Ma anche Abelardo costituisce un’eccezione.
Il soggetto medievale tende, di norma, a confrontarsi con modelli precostituiti di personalità religiose (santi) o laiche (filosofi) e a nascondersi dietro tali modelli, che rimangono iscritti entro un ordine generale e superiore. Dietro la figura di ogni individuo si staglia sullo sfondo il supremo giudizio della collettività, l’unico abilitato a discernere il bene dal male. “All’individualità non si dà valore, né la si approva, la si teme e non solo negli altri; l’uomo si guarda dall’essere se stesso. La manifestazione dell’originalità, della singolarità aveva l’aroma dell’eresia. L’uomo soffriva sapendo di non essere come tutti gli altri” (GUREVIČ 1996: 228).
L’Io antico-medievale esiste e può esistere soltanto nell’ambito di un gruppo (Stato, città, famiglia, parrocchia, feudo, signoria, corporazione, gilda) o di una ben determinata sfera culturale. “Re, papi e principi per gli annalisti e gli storici erano interessanti non di per sé, ma piuttosto come rappresentanti di un processo più profondo di rivelazione divina […]. Ancor meno venivano considerati individualità i santi, gli eremiti, i mistici, al contrario: la loro gloria consisteva nella rinuncia al proprio Io, nella dissoluzione della personalità in Dio” (GUREVIČ 1996: 228-9). E non poteva essere che così. Infatti, “Il sistema di valori, fondato dal cristianesimo medievale, non indirizzava la personalità a proclamare e affermare la propria irripetibile individualità” (GUREVIČ 1996: 286).

Rinascimento ed età moderna
Bisogna aspettare il XIV secolo per assistere alla nascita dell’I.smo in senso moderno, e ciò avviene in quel Guglielmo di Ockham, che, fondando la conoscenza umana sull’esperienza empirica ed escludendo la teologia dal novero delle scienze, apre le porte al “primato assoluto dell’individuo” e anticipa il Rinascimento, l’epoca d’oro delle grandi individualità. Dopo il Rinascimento, il filo dell’individualismo si svolge in modo sempre più fluido e quasi senza interruzione. Tra le figure più rappresentative, ricordiamo Montaigne (XVI secolo), che, oltre a manifestare la consapevolezza dell’unicità e irripetibilità della persona, rivendica il diritto all’autonomia e alla libertà di pensiero e rifiuta il principio d’appartenenza. Seguono il timido I.smo di Cartesio (XVII secolo), che fonda la sua teoria della conoscenza sul soggetto pensante e dubitante, e il debole I.smo sotteso nella teoria del “contratto” di Hobbes, dove si agita “l’idea che non l’individuo è il prodotto della società ma è la società il prodotto dell’individuo” (BOBBIO 1999: 377).
Una più decisa affermazione dell’Is.mo è contenuta nel pensiero liberale di Locke, Humboldt e Constant, i quali indicano come vero protagonista della civiltà e del progresso non lo Stato, bensì l’individuo e auspicano che questi venga protetto da ogni forma di sopraffazione e tutelato nei suoi diritti, primo fra tutti quello della libertà. Per i liberali, è bene tutto ciò che mira a realizzare, pienamente, le facoltà proprie dell’uomo, che è fatto ad immagine di Dio e non ha bisogno di figure paterne o tutori. “E che! I sudditi dovrebbero sopportare tutto pazientemente, con il pretesto che i sovrani derivano immediatamente da Dio la loro autorità e che Dio solo ha diritto di chieder loro conto della loro condotta!” (CHEVALLIER 1968: 121). Questa dottrina del diritto divino è considerata da Locke un vero e proprio veleno della politica, al quale occorre urgentemente trovare un antidoto. A differenza di Hobbes, Locke ritiene che, nello stato di natura, i singoli uomini non stanno poi così male, anche se vedono le loro libertà e le loro proprietà mal garantite. Se preferiscono lo Stato è per essere meglio tutelati nei loro diritti. Dandosi un governo, tuttavia, essi non rinunciano alla propria sovranità originaria. Il potere politico si basa sul consenso: ecco l’antidoto.
Secondo Rousseau, lo scopo essenziale dell’educazione è quello di formare uomini che, pur essendo perfettamente inseriti nella società, conservino un’autonomia morale rispetto ad essa. Il filosofo ginevrino, tuttavia, non riesce a spingere il suo pensiero in modo coerente e fino alle estreme conseguenze, finendo con l’arenarsi in concetti generici e fuorvianti, che annacquano la sua carica individualista. Per Rousseau, infatti, la libertà dell’individuo consiste nel piegarsi alla volontà generale, la quale, però, non corrisponde alla volontà di tutti o della maggioranza, bensì ad un generico e non ben definito interesse generale, che si oppone agli interessi particolari delle persone. Il popolo di Rousseau è sovrano solo in quanto portatore della volontà generale: non ha potere legislativo, né libertà di decidere autonomamente, e rimane schiacciato sotto il peso di questa volontà impersonale, di questa Legge fatta da nessuno, di questo principio onnipotente ma astratto. A Rousseau non interessa che il popolo approvi o respinga una legge, gli interessa soltanto che quella legge sia conforme o meno alla Volontà generale. Così, pur essendo mosso dall’intento di liberare l’uomo dal giogo di leggi fatte da altri uomini, Rousseau finisce per mortificare la libertà individuale e tracciare il modello di una democrazia apparente. In un certo senso, egli realizza un sistema assolutistico non meno rigido di quello sostenuto da Bodin, Hobbes e Bossuet. Per il filosofo ginevrino, infatti, “la volontà generale è sovrana e in quanto tale trascende la volontà individuale dei soggetti nella stessa misura in cui il governante di Hobbes era posto al di sopra dei governati” (DUMONT 1993: 119).
Il pensiero di Montesquieu non è lontano da quello di Rousseau, la principale differenza consistendo in questo, che alla Volontà generale Montesquieu sostituisce le Leggi, e lo spirito da cui esse emanano. Il legislatore è, in teoria, il popolo intero, il quale, però, non potendo svolgere, direttamente, questa funzione, deve delegarla alla nobiltà o ad un corpo di rappresentanti, così come deve delegare al re il potere esecutivo, cioè il compito di applicare le Leggi stesse. Ciò che distingue i modelli di Rousseau e Montesquieu rispetto a quello di Hobbes è che essi non sono fondati sul principio autoritario, ma sulla libertà e sulla giustizia, anche se poi, di fatto, si risolvono anch’essi in una qualche forma di autoritarismo.

Età contemporanea
L’I.smo raggiunge la sua massima espressione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proclamata dall’Assemblea Costituente francese nel 1789, che, nell’art. 1, afferma: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”. Da questo momento, il fronte dell’I.smo, pur restando minoritario, si rafforza e dalla sua parte si schierano pensatori come Hume, Mandeville, Bentham e, soprattutto, Kant, che è l’autore di un’importante svolta. Fino a Kant, gli studiosi hanno tentato di spiegare la conoscenza supponendo che fosse il soggetto (l’individuo) a dover ruotare intorno all’oggetto (la realtà esterna). Kant inverte i ruoli e stabilisce che è l’oggetto a dovere ruotare attorno al soggetto, realizzando, in tal modo, quella che lui stesso chiama la «sua» rivoluzione copernicana. In pratica, Kant afferma che non è l’individuo che, conoscendo, scopre le leggi della natura, ma, viceversa, è la natura che si adatta, allorché viene conosciuta, alle leggi dell’individuo conoscente. Il cambio di prospettiva non può essere più radicale.
Dopo Kant il pensiero individualista si estende e si consolida, conquistando fure del calibro di Fichte, Stirner, Kierkegaard, Spencer e Mills. Fichte indica nell’Io il principio originario, autoaffermantesi, il principio unico e supremo che fonda l’intera realtà e conoscenza, e da cui tutto deriva, anche Dio: tutto ciò che è esterno all’Io (realtà, natura, o noumeno come lo chiamava Kant), è Non-Io. Per Stirner, l’individuo è l’unica realtà e l’unico valore: tutto il resto è affatto secondario. Se Hegel aveva affermato che quel che conta non è il singolo, bensì l’umanità, Kierkegaard, invece, sostiene che il singolo conta più della specie. Anche per Spencer, è la società che esiste per gli individui e non viceversa. Dal canto suo, J.S. Mill sostiene che la funzione primaria dello Stato dev’essere quella di promuovere i singoli cittadini: “uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi” (1997b: 133). Il primato dell’individuo sulla società è magistralmente enfatizzato dal pensatore inglese (1997b: 20): “Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità”.
In virtù di questa proclamata sovranità individuale, il solo scopo per cui un governo può legittimamente esercitare un potere su un qualsiasi cittadino, contro la sua volontà, “è per evitare danno agli altri” (MILL 1997b: 12). Ciò non significa negazione di ogni gerarchia sociale, né che tutti gli individui debbano essere assolutamente uguali. Mill, infatti, diffida dell’egualitarismo democratico. Al centro della sua attenzione sta l’individuo, nella sua diversità. È bene –afferma– concedere agli individui uguaglianza di opportunità e poi lasciare che si sviluppi fra loro una libera concorrenza ed emergano i migliori: i cittadini verranno ordinati non solo secondo il censo, ma anche secondo le competenze e la cultura, dando la preferenza a queste ultime. La società – prosegue lo studioso – deve essere governata da rappresentanti eletti a suffragio universale, con poche eccezioni (gli analfabeti, gli assistiti dal comune), e i voti dei cittadini devono avere un peso diverso in proporzione al loro valore. Secondo Mill, gli Stati peggiori sono quelli a governo dispotico o paternalistico, perché trattano i cittadini come bambini e ostacolano la loro crescita. Lo Stato milliano deve intervenire il meno possibile nella vita dei cittadini e, quando interviene, la sua azione può essere giustificata solo non nella misura in cui essa tende a difendere gli stessi diritti individuali.

L’homo oeconomicus
La centralità dell’individuo risalta in modo evidente nell’ambito dell’economia classica, la quale afferma che l’uomo, in quanto essere razionale, è in grado di scegliere, tra le alternative a sua disposizione, quella che comporta per lui la massima utilità, ovverosia, “postula un individuo che sceglie i mezzi più appropriati per massimizzare l’utilità soggettiva” (DI NUOSCIO 1996: 87). Alla base del pensiero economico c’è l’idea che ogni singola azione di ogni singolo individuo umano è sempre sostenuta da una logica razionale tornacontistica, alla luce della quale può essere compresa e spiegata ai propri simili. Il comportamento dell’homo oeconomicus è ben studiato dalla teoria dei giochi, o teoria delle decisioni, che ci consente di osservare gli attori mentre cercano, in ogni particolare situazione, di ottenere il massimo vantaggio col minimo rischio. “Il famoso e tanto discusso uomo economico è un individuo avido, sempre alla ricerca di migliorare la sua posizione nei confronti della ricchezza intesa in senso generale (utilità)” (SCHNEIDER 1985: 48). È un opportunista, uno che, partendo dalle risorse e dalle informazioni a sua disposizione in un determinato momento, tende a massimizzare il proprio vantaggio. Quando Adam Smith afferma che ogni uomo è il giudice migliore del suo proprio interesse e che il consumatore è in grado di scegliere, tra le alternative che gli si offrono, quella a lui più conveniente, in realtà sta dichiarando la sua fiducia nelle capacità di discernimento dell’individuo, almeno sul piano economico, ma (perché no?) anche su quello morale. Il grande merito dell’economia, che è quello di aver saputo evidenziare la centralità dell’individuo e il suo indiscusso primato su un fatiscente collettivo, è ben riassunto da Mises (1990: 139): “Ogni azione razionale è economica. Ogni attività economica è un’azione razionale. Ogni azione razionale è in primo luogo un’azione individuale. Solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce”.

L’anarchismo
Il campo, dove è possibile trovare la più appassionata difesa dell’individuo e dei suoi diritti, è certamente rappresentato dall’anarchismo. Secondo Godwin, lo Stato non è un complesso organico, ma semplicemente “un aggregato di individui” (1997: 102) e l’obiettivo della politica è quello di educare i cittadini alla felicità e all’indipendenza. “Senza indipendenza gli uomini non possono essere né saggi né utili né felici. Di conseguenza la condizione più desiderabile per l’umanità è quella in cui viene mantenuta la sicurezza generale, con la minor violazione possibile dell’indipendenza individuale” (1997: 64-5). Lo Stato dovrebbe essere formato da piccole comunità organizzate secondo i princìpi della democrazia partecipativa e in modo federale, ma al consiglio federale si deve ricorrere il meno possibile e solo in casi eccezionali. La società ideale è fatta di comunità che si autogovernano e non hanno bisogno di uno Stato centrale forte, il quale si rende necessario solo quando, e nella misura in cui, gli uomini non sono in grado di autogovernarsi. Tuttavia, finché ci sarà un governo forte gli individui non saranno autonomi e indipendenti nel giudizio, e finché gli individui non saranno autonomi ci sarà ancora necessità di uno Stato. “I veri sostenitori del governo sono i deboli e i disinformati, non i saggi. Le basi del governo si sgretoleranno quindi di pari passo con il regredire della debolezza e dell’ignoranza. Si tratta tuttavia di un evento che non deve essere considerato con allarmismo. Uno sconvolgimento di questo genere costituirebbe la vera eutanasia del governo” (GODWIN 1997: 104-5). Ed è proprio questo l’obiettivo ultimo dell’anarchismo: la fine dello Stato e l’esaltazione dell’individuo.

Oggi
Il momento topico nella storia dell’I.smo si registra alla fine della seconda guerra mondiale, con la caduta dei regimi dittatoriali e l’affermazione, a livello planetario, della democrazia rappresentativa. Da questo momento il pensiero individualista si arricchisce di importanti contributi teorici e acquista peso e autorevolezza. Soffermarsi sul pensiero di tutti gli studiosi contemporanei che hanno preso posizione a favore dell’I.smo richiederebbe un libro dedicato. In questa sede ci limitiamo a menzionare i nomi di Heidegger, Mises, Lasswell, Hayek, Garfinkel, Popper, Rothbard, Friedman, Boudon, Nozick e Feyerabend: un esercito! Seppur in modo diverso, tutti costoro sostengono che il comportamento umano può essere compreso solo partendo dall’individuo e riconducono i fenomeni sociali a cause individuali.
Oggi non c’è Repubblica democratica che non declami, anche se talvolta solo a parole, i princìpi dell’individualismo, a tal punto che questi rappresentano “il carattere specifico” della modernità (HERVIEU-LÉGER 1993: 704). Ai giorni nostri è diffusa la ferma convinzione che l’essere umano è in grado di autogestirsi e dare un senso compiuto alla propria vita, e si è inclini a riconosere questa condizione come un diritto universale irrinunciabile. Giddens, per esempio, non esita ad indicare nell’autonomia e nello sviluppo individuale “l’obiettivo principale” (1999: 125) delle nostre democrazie. Salvador Giner (1998: 98) lo segue a ruota: “Uno dei compiti più seri che oggi dobbiamo affrontare –afferma Salvador Giner– è quello di creare buoni cittadini, ossia soggetti attivi e responsabili, in luogo di gente indifferente alla causa comune; cittadini che non si scoraggino di fronte alle difficoltà della vita politica democratica e disposti a difendere con fermezza i suoi lati positivi e a riformare quelli negativi”. E lo stesso fa Murray Bookchin (1993: 53), il quale, nel descrivere il suo modello municipalista, afferma la propria fiducia nel cittadino con queste parole, che fanno venire in mente i sofisti: “Ogni cittadino è considerato competente in materia di affari pubblici e addirittura viene incoraggiato ad occuparsene. Viene perciò fornito ogni mezzo atto a favorire una piena partecipazione intesa come processo educativo ed etico che trasforma la latente capacità del cittadino in una realtà effettiva”.
Quanto affermano gli studiosi trova fedele riscontro nella realtà, dove è viva l’autocoscienza di sé delle persone, nonostante la spinta massificante degli Stati e della globalizzazione. Secondo Anthony Elliot e Charles Lemert, “nella nostra società moderna l’etica dell’autoesaltazione individuale regna sovrana” (2007: XI).

Cosa significa «individualismo»?
È arrivato il momento di chiederci che cosa sia, in realtà, l’I.smo e che cosa significa essere individualisti. “L’individualismo poggia innanzi tutto sulla convinzione che l’umanità non è composta di insiemi sociali (nazioni, classi, ...) ma di individui, di esseri viventi, indivisibili e irriducibili gli uni agli altri, singoli nel sentire, agire e pensare” (LAURENT 1994: 16). Esso sostiene che lo Stato, di per sé, è solo un nome: non ha bocca per parlare, né gambe per camminare, né mani per manipolare, né cervello per pensare. Tutto ciò che viene pensato e fatto ha per protagonista un essere individuale e personale. Il gruppo e l’istituzione è il paravento dietro il quale si celano soggetti individuali, che spesso agiscono dietro le quinte in funzione dei propri scopi. In altri termini, l’individuo è l’unico essere capace di sviluppare un pensiero autonomo, di agire per uno scopo, di creare gruppi e Stati, perfino di distruggere ciò che ha creato, mutare una prassi consolidata o cambiare una società.
Ogni idea e ogni azione cominciano sempre da uno o da pochi individui, mai da un gruppo indistinto e indeterminato, ed è per questo che l’individuo costituisce la materia prima, la struttura e la sostanza, laddove invece il gruppo (qualsiasi gruppo) è solo un artefatto culturale. L’opinione secondo la quale i gruppi, i partiti, le nazioni, le società, sono “gli oggetti empirici che le scienze sociali studiano così come la biologia studia gli animali e le piante [...] deve essere respinta per la sua ingenuità” (POPPER 1972: 579).
Secondo l’I.smo, l’individuo rappresenta “il valore più elevato” (LAURENT 1986: 11) e conviene partire da lui per comprendere il sociale, e non viceversa. L’I.smo non nega l’influenza del fattore culturale e sociale sull’individuo, ma afferma che questa influenza non è assoluta, perché il soggetto non è sempre passivo e può non piegarsi all’opinione comune e allo spirito delle leggi. L’I.smo attribuisce a ciascuno un valore in quanto individuo, che è incondizionato e indipendente da ogni criterio di appartenenza e da ogni altra considerazione di ordine sociale o culturale. Ogni individuo è un assoluto, un’entità sovrana, un progetto singolare, un mondo a sé stante e la sua dimensione sociale non elimina il suo valore ontologico. Ogni individualità è uguale ad un’altra, ha la stessa dignità, lo stesso valore. Questo principio è ben espresso dall’immagine religiosa della creaturalità: essendo figli di Dio siamo tutti uguali.
L’I.smo parte dal postulato che, in quanto unici, liberi e portatori di bisogni, gli individui costituiscono la parte attiva, l’elemento fondante, l’anima di ogni gruppo o società. Non esiste, pertanto, se non come metafora, una “ragion di Stato” e nemmeno un’”azione di Stato”, ma solo interessi e azioni di individui. Non è lo Stato che pronuncia la condanna a morte in un processo e la porta a compimento: è un giudice che emette la sentenza ed è il boia che la esegue. Lo Stato non pensa: non ha scopi né volontà, non ha bisogni né autocoscienza, non ha bisogni né emozioni. Ne consegue che la società deve orbitare intorno ai propri membri individuali, e non il contrario. “Il valore supremo, in tutte le costruzioni sociali ed economiche, è l’uomo; scopo della società è di offrire le condizioni adatte al pieno sviluppo delle potenzialità umane” (FROMM 1996: 95). Lo Stato, in definitiva, deve mettersi al servizio dei singoli progetti di vita individuali, anziché erigere barriere culturali e sviluppare logiche di gruppo tanto care all’olismo, la cui conseguenza ultima è l’abominevole sacrificio delle ragioni individuali.

Il caso di mio nonno
Mio nonno Giuseppe era un minuscolo contadino semianalfabeta, che lavorava il suo piccolo podere in una sperduta landa in provincia di Catania. Parlava solo il dialetto natio e, come gli altri abitanti della contrada, si allontanava dalla sua terra raramente ed entro un raggio di poche decine di Km, sempre per ragioni ben precise, come la partecipazione ad una fiera, una malattia, un matrimonio e poco altro. Le mete abituali erano i paesi vicini e, solo eccezionalmente, si affrontava col carretto l’impegnativo viaggio per Catania, che distava circa 40 Km. Giuseppe era sposato senza prole e aveva trent’anni quando, nel 1914 veniva reclutato e inviato al fronte dell’Isonzo, per combattere contro gli austriaci, allo scopo di liberare le città di Trento e Trieste e annetterle all’Italia. Ora, con quale spirito può lasciare la sua terra e i suoi affetti un giovane sposo siciliano, che non conosce né l’Italia né l’Austria, né Trento né Trieste, e non parla nemmeno la lingua italiana, ve lo lascio immaginare! Giuseppe si sarebbe certamente sottratto a quella chiamata se ne avesse avuto la possibilità, ma dovette piegarsi alla forza bruta dello Stato, che lo strappava dal suo ambiente e lo mandava a rischiare la vita in un terra sconosciuta e per una causa a lui estranea. Mio nonno, per fortuna, riuscì a salvare la pelle, ma a molti altri giovani andò peggio e il loro progetto di vita fu ignobilmente stroncato per sempre dalle fameliche brame di qualcuno che si faceva chiamare “Stato”.

La sociologia dell’azione
Il primato dell’individuo emerge dalla sociologia dell’azione, secondo la quale “si possono imputare gli stati mentali solo ad individui, ed è solo per metafora che concetti quali volontà, coscienza o psicologia vengono applicati a «soggetti» non individuali” (DI NUOSCIO 1996: 85). Lo Stato non pensa, né agisce. Solo l’individuo pensa e agisce, e “ogni fenomeno sociale è il risultato della combinazione di azioni, credenze o atteggiamenti individuali” (BOUDON 1994: 625). Ne consegue che i fenomeni sociali vanno studiati partendo dalle azioni dei singoli individui e che bisogna “diffidare di chi sostiene una concezione antindividualistica della società” (BOBBIO 1992: 117). Inoltre la sociologia dell’azione “parte dal postulato che il comportamento di un attore sociale sia sempre comprensibile” (BOUDON 1991: 463) e va a ricercare le “buone ragioni” che lo hanno spinto in quella direzione. Secondo Boudon, “il ricercatore deve fare come il poliziotto, scoprire le tracce lasciate dai singoli e ricostruire la loro strategia di azione partendo delle loro ragioni” (DI NUOSCIO 1996: 59). Con ciò non si pretende, certo, di affermare che l’uomo agisce sempre in maniera rigorosamente razionale. Si sa, infatti, che la razionalità umana non è né perfetta, né assoluta, e che occorre tener conto dei condizionamenti culturali, emotivi e situazionali cui ciascun soggetto è sottoposto. S’intende invece affermare che l’attore sociale è colui il quale, trovandosi di fronte a un certo numero di alternative ritenute possibili, sceglie quella che gli sembra più soddisfacente in quel particolare momento.

La razionalità soggettiva
Secondo il principio di razionalità soggettiva, “gli individui agiscono sempre in maniera adeguata alla situazione in cui si trovano” (DI NUOSCIO 1996: 139). Per Popper e Mises, anche l’azione di un folle può essere considerata razionale, in quanto coerente e adeguata al punto di vista del soggetto. All’origine di ogni azione c’è sempre, dunque, una certa razionalità, ossia un complesso di “ragioni”, che spingono un individuo a comportarsi in un modo anziché in un altro, anche se non sempre si riescono a cogliere in tutte le loro sfumature. Ogni individuo ha le sue buone ragioni per comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, ha la sua logica e obbedisce a quella, e, poiché non c’è un modo per dire con certezza che la logica di uno è superiore a quella di un altro, ne consegue che tutte le logiche hanno un proprio valore intrinseco. Ogni logica è sovrana, come sovrano è l’individuo che la esprime. Mi piace chiudere questa esposizione con le parole di Raymond Boudon (1991: 462), che, in modo semplice ed esemplare, ci spiegano che cosa dobbiamo intendere per I.smo: “In senso morale è individualista chi vede nell’individuo la fonte suprema dei valori etici; in senso sociologico una società è individualistica quando assegna in generale all’individuo un valore preminente; in senso metodologico, infine, la nozione di individualismo implica solamente che, per spiegare un fenomeno sociale, si debba risalire alle sue cause individuali”.

Il futuro dell’individualismo
Quale sarà il futuro dell’I.smo? Non lo sappiamo. Al momento attuale, non è possibile prevedere se esso riuscirà ad affermarsi, né in che modo e in che misura esso verrà applicato concretamente nella realtà sociale. Quel che sappiamo è che, oggi, per la prima volta nella storia, l’I.smo rappresenta un’alternativa credibile all’olismo. Oggi, all’interno della teoria individualistica, albergano due principali linee di pensiero: l’una moderata, l’altra radicale. Gli individualisti moderati (che sono la maggior parte) vogliono che i poteri dello Stato siano ridotti al minimo e le libertà degli individui ampliate al massimo; gli individualisti estremi (Stirner, Nock) vedono invece nello Stato un nemico da abbattere e sostengono l’anarchia. In ogni caso, oggi l’I.smo tende ad affermarsi solo a livello di nicchia, fra l’élite intellettuale, mentre l’anti-I.smo domina a livello di massa, dove gli uomini “si fidano più degli usi e della tradizione dei padri, che non della propria ragione” (VAUVANERGUES 1989: 317) e continua a prevalere la «morale di gregge», come la chiamava Nietzsche. La ragione è semplice: pensare con la propria testa costa fatica, esprimere le proprie potenzialità comporta un impegno assai gravoso, che pochi sono disposti a sostenere, e così la maggior parte delle persone trova più comodo mettersi al seguito di qualcun altro e lasciarsi guidare.

Conclusione: Individualismo come Democrazia
Possiamo concludere questo rapido excursus storico affermando che oggi l’I.smo è una realtà consolidata ed ha le carte in regola per insidiare il primato dell’olismo, anche se i tempi per un auspicabile sorpasso si prevedono ancora lunghi e irti di difficoltà. Alla fine, vogliamo sperare, l’I.smo prevarrà e, se ciò accadrà, ci aspettiamo di veder realizzata una qualche forma di democrazia evoluta, che chiamiamo DD. L’I.smo, infatti, è da intendersi come strettamente connesso con la vera democrazia, nel senso che senza il primo non può esserci la seconda e, dove c’è il primo, dev’essersi necessariamente la seconda. “Solo gli individui nella pienezza dei loro diritti civili e politici sono i protagonisti del processo democratico, da essi soli promana il consenso che è la fonte di legittimità del sistema” (GRECO 2000: 243). “Eliminate una concezione individualistica della società. Non riuscirete più a giustificare la democrazia come forma di governo. Quale migliore definizione della democrazia se non quella secondo cui in essa gli individui, tutti gli individui, hanno una parte della sovranità?” (BOBBIO 1992: 116). In ultima analisi, per l’I.smo, la società ideale è quella che riesce a tutelare i diversi progetti individuali, chiamateli pure “egoismi”, vigilando che non vi siano prevaricazione di uno sull’altro.

09. Il pensiero olista

Dopo l’affermazione dello Stato non ha cessato di risuonare il vecchio interrogativo: «vale di più la ragion di Stato o quella dell’individuo?». Questo interrogativo ha ricevuto le prime risposte organiche da intellettuali di palazzo, i quali, com’è ovvio, si sono schierati dalla parte del principe e hanno assunto posizioni olistiche. Le loro idee sono poi confluite nei racconti mitici e religiosi, che iniziavano a circolare fra la gente, col risultato di rendere familiare l’ideologia olista, a tal punto che essa è stata recepita e tramandata da padre in figlio come una legge naturale e ha dominato incontrastata la scena per millenni, fino a tempi recenti, quando ha cominciato ad emergere il valore dell’individuo e, per la prima volta nella storia, l’I.smo è venuto a rappresentare un’alternativa possibile all’olismo. Ha ragione dunque Bobbio quando afferma che “l’organicismo è prevalentemente antico e l’individualismo è prevalentemente moderno” (1997: 179). Non ci resta che osservare più da vicino le due posizioni. Cominciamo dall’olismo.

La logica della «Ragion di Stato»
Le logiche di potere che si sviluppano consensualmente all’affermazione dei grandi Stati fanno sì che il vero artefice della storia, ossia l’individuo, perda di valore e scenda nell’ombra, mentre acquistano importanza le idee «nazione», «monarchia», «repubblica» o quella più generica di «popolo». “L’individuo si dissolve nel popolo che si costituisce come un’entità organica e indivisibile; lo spirito del popolo diventa il motore della storia e in suo nome si può prendere ogni decisione” (FACCHI 1997: 112). Il protagonista della storia è ora la Città o lo Stato (o il Re, che li rappresenta entrambi), mentre l’individuo, il singolo individuo, è chiamato a sacrificarsi in nome di una qualche superiore ideologia di gruppo e costretto all’obbedienza. Dal momento in cui nasce lo Stato, il mirabile equilibrio fra individuo e gruppo si spezza a favore del gruppo, e prevale l’opinione che i fenomeni sociali siano sottoposti a leggi eterne (naturali o divine che siano) e che l’individuo non sia un soggetto compiuto ed autonomo, bensì un soggetto manchevole, il cui bene personale si riduce ad un semplice riflesso del bene generale.
Questa è la posizione dell’olismo (o collettivismo), che ha dominato la storia negli ultimi tre-quattro millenni ed è stato sostenuto non solo dagli antichi (Platone, Aristotele) e dai medievali (Giovanni di Salisbury, Marsilio da Padova), ma anche dai moderni e dai contemporanei (si pensi all’idealismo, allo strutturalismo, al sociologismo, allo storicismo, allo spiritualismo, al nazionalismo, al funzionalismo, al positivismo, all’organicismo, all’istituzionalismo, al socialismo e a pensatori quali Saint-Simon, Comte, Hegel, Marx, Durkheim e Luhmann). Alla fine, la tesi in cui la maggioranza degli olisti concorda è che “l’individuo è un’astrazione e che solo la totalità è reale” (BOUDON 1991: 470).

La logica del Dio-Padre
Sulla scia dell’olismo si muove anche il pensiero ebraico-cristiano, dal quale prenderà origine quella particolare ideologia chiamata spiritualismo, al cui centro c’è la concezione di un Dio-Padre, perfetto e onnipotente, alla quale fa pendant la figura dell’“uomo-bambino”, di un individuo cioè che è radicalmente incapace di discernimento morale e di autodeterminazione ed ha bisogno di una guida amorevole e paterna. Il vero protagonista è Dio. È Dio che impone la legge, è Dio che dà origine allo Stato, è Dio che destina alcuni al comando altri all’obbedienza, è sempre Dio che si serve degli uomini per realizzare i suoi imperscrutabili progetti. Il singolo individuo non deve far altro che rinunciare a se stesso e farsi docile strumento: deve abbandonarsi e ubbidire (MUNI 1990). È in quest’ottica che si sviluppano le concezioni politiche di Tommaso d’Aquino, Rosmini, Gioberti, e di tanti altri spiritualisti, per i quali l’individuo, in quanto creatura, ha solo un valore riflesso. Anche la chiesa gerarchica, ossia l’insieme dei pastori, ai quali Dio avrebbe affidato il compito di guidare il suo gregge e fissare le norme etiche del comportamento, ha un valore riflesso, ma si tratta di un valore incommensurabilmente superiore a quello del singolo fedele. In fondo, è la chiesa-istituzione che dà valore all’individuo, e non viceversa, e lo stesso individuo, se esce dalla chiesa, perde qualcosa, mentre la chiesa, se perde un individuo, non perde nulla.

L’assolutismo politico dell’età moderna
Fra le più decise teorie olistiche va ricordato l’assolutismo politico, che è stato dibattuto nel XVI-XVIII secolo da autorevoli pensatori, come Bodin, Hobbes e il vescovo francese Bossuet, e, secondo il quale, gli individui umani non hanno mai avuto (o hanno rinunciato, o sono stati deprivati) del proprio potere sovrano, tutti eccetto uno, il monarca, che, come un dio, ha il diritto di comandare, senza essere sindacato. Per definizione, “il sovrano è solo chi non dipende in niente da altri; in niente dal Papa, in niente dall’Imperatore; che dipende completamente da se stesso; che non è legato da alcun vincolo di soggezione personale; il cui potere non è né temporaneo, né delegato, né responsabile verso alcun altro potere sulla terra” (CHEVALLIER 1968: 63).
Per Bodin, come la famiglia non ha che un capo, il cielo non ha che un sole, il cosmo non ha che un Dio, così lo Stato deve avere un principe sovrano, il quale costituisce l’immagine di Dio sulla terra ed è tenuto a sottomettersi unicamente alle leggi di natura, che sono un riflesso della ragione divina, mentre è sciolto (absolutus) dall’autorità delle leggi. “Poiché sulla terra non vi è niente di più grande dei principi sovrani, che vengono solo dopo Dio che li ha stabiliti come suoi luogotenenti per comandare agli altri uomini, bisogna avere nella più alta considerazione la loro dignità, rispettare e riverire la loro maestà in piena obbedienza, nutrir sentimenti di grande rispetto per loro, parlare di loro con estremo riguardo. Chi disprezza il suo principe sovrano disprezza Dio, del quale esso è l’immagine in terra” (BODIN 1964, I-10, p. 477). In definitiva, per Bodin la monarchia è il regime più naturale e migliore che vi sia.
Alle stesse conclusioni approda Hobbes, il quale parte dall’assunto che lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua fra individui sovrani. È per uscire da tale stato che, secondo il filosofo inglese, gli uomini stabiliscono tra loro un contratto, in base al quale trasferiscono la propria personale sovranità ad un «terzo» che, da parte sua, è assolutamente estraneo al contratto stesso e, pertanto, non è legato da alcun obbligo nei confronti di altri. Con questa rinuncia, che è definitiva e irrevocabile, gli uomini si spogliano volontariamente della loro autonomia di giudizio morale e s’impegnano a “tenere per buono e giusto quello che il sovrano ordina, per cattivo e ingiusto che sia quello che egli proibisce” (CHEVALLIER 1968: 84). Dietro l’idea del «contratto» si può intravedere una concezione negativa dell’individuo e un senso di sfiducia nelle sue capacità di autogovernarsi, mentre il sociale (che è incarnato nella figura del re) assume i caratteri della necessità e della preminenza. “La vita giusta [per Hobbes] non è quella dell’individuo, ma quella dell’uomo strettamente dipendente dallo Stato, tanto strettamente da identificarsi necessariamente, anche se in modo parziale, con il sovrano” (DUMONT 1993: 114). Per Hobbes, sarebbe una grave calamità che gli uomini pretendessero di giudicare con la propria coscienza, anziché in base alla legge. “Erigendosi a giudici del bene e del male, gli uomini tornano allo stato di natura, ed alla sua spaventosa anarchia” (CHEVALLIER 1968: 89). La concezione hobbesiana ricorda la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, con una differenza: i nostri progenitori biblici erano stati puniti da un’autorità superiore, mentre gli uomini di Hobbes si puniscono da se medesimi.
Partendo da una posizione di tipo aristotelico (Dio ha creato gli uomini naturalmente socievoli), Bossuet sposa l’idea di Hobbes (gli uomini sono soggetti sovrani che lottano l’un contro l’altro), precisando, tuttavia, che ciò è la conseguenza del peccato originale. Da qui la necessità di un governo. “Se gli uomini fossero angeli –osserverà Hamilton– non occorrerebbe alcun governo” (Il Federalista, p. 458). È la stessa concezione negativa dell’individuo che sta alla base delle moderne democrazie rappresentative. Bossuet conclude che il governo migliore e più naturale è la monarchia assoluta, dove il re agisce in vece di Dio e deve essere rispettato come un dio in terra. Secondo il vescovo francese, il re è tenuto a fare il bene pubblico, e di ciò dovrà rendere conto a Dio. Il popolo, da parte sua, è chiamato all’obbedienza. “Una sola eccezione alla completa obbedienza dovuta al principe: quando egli comanda contro Dio” (CHEVALLIER 1968: 109).

Funzionalismo e organicismo
A conclusioni non dissimili giungono, seppure per vie diverse, il funzionalismo di Malinowski, Merton, Parsons ed Easton e l’organicismo di Schlegel, Schelling, Novalis, Muller e Haller: i primi privilegiano la ragion di Stato, le esigenze delle istituzioni, gli equilibri del sistema, le esigenze del potere politico, la forza delle tradizioni, l’importanza del gruppo e via dicendo, laddove i secondi vedono nello Stato un organismo vivente, del quale i singoli individui sarebbero le cellule e i gruppi gli organi e le membra. Così come il corpo di un essere umano deve essere considerato superiore alle singole cellule e ai singoli organi che lo compongono, allo stesso modo lo Stato è superiore ai singoli individui che lo costituiscono. Entrambi, funzionalisti e organicisti, pongono in secondo piano l’individuo, le sue motivazioni, i suoi bisogni, la sua psicologia, la sua volontà, i suoi sentimenti, la sua coscienza e il suo subconscio, e considerano il tutto superiore alla somma delle parti e lo Stato superiore alla somma dei membri che lo costituiscono.

Lo Stato etico
Nell’Ottocento, dominato dall’idealismo hegeliano, si tende a respingere l’idea che lo Stato sia originato da un “contratto” stipulato da persone libere e si afferma il primato assoluto dello Stato. Per Hegel, lo Stato “diventa un’ipostasi, una sostanza indipendente, le cui norme non sono definite partendo dalla vita reale della società (dalla esperienza), ma dedotte in modo trascendentale (al di fuori dall’esperienza, in modo del tutto concettuale) […]. L’individuo ha oggettività, verità ed eticità, soltanto in quanto è componente dello Stato” (GRUPPI 1969: 103). Secondo Hegel, lo Stato è un ente originario, antecedente e primario rispetto all’individuo, che progredisce incessantemente verso la perfezione, indipendentemente dalla volontà dei singoli membri che lo compongono. “Senza lo Stato l’individuo non ha identità e il popolo è una moltitudine informe” (BARBERA 1997: 29). Per conseguenza, i diritti dell’uomo “vengono fatti derivare esclusivamente dalla volontà dello Stato” (BONGIOVANNI 1997: 83). È la cosiddetta dottrina dello Stato etico, la quale vede nello Stato un fine anziché un mezzo e afferma che è l’uomo a vivere per lo Stato e non viceversa.

Marxismo
Anche per Marx conta solo lo Stato, l’individuo isolato essendo solo un’invenzione della teoria utilitaristica, e non essendoci individuo che non sia stato generato e plasmato da una società. Per il marxismo, i grandi valori etici, come l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà e l’altruismo, non nascono dall’individuo ma dalla storia e, precisamente, dal partito che ne interpreta il senso, ed è per questo che la ragione del collettivo conta più della ragione individuale.

Sociologismo
Nella tradizione collettivistica s’inserisce anche il sociologismo di Durkheim, secondo il quale i fatti sociali non sono determinati dalle azioni, dalle motivazioni, dai sentimenti e dalle coscienze individuali, che sono inosservabili e inconoscibili allo scienziato, bensì dalle leggi sociali, le uniche ad avere valenza oggettiva e a costituire oggetto di ricerca scientifica. Il protagonista degli accadimenti sociali non è l’individuo, ma la società, e “la causa determinante di ogni fatto sociale deve essere cercata tra i fatti sociali antecedenti, e non già tra gli stati della coscienza individuale” (DURKHEIM 1996: 106). L’individuo non ha libera volontà, e non è nemmeno in grado di decidere la forma della sua casa né quella dei suoi abiti, essendo ciò deciso a livello sociale. Ciò che conta è, dunque, la società, e la società viene intesa non come un insieme di soggetti personali, bensì come una totalità, autonoma e primaria rispetto all’individuo, che le è subordinato. “È l’individuo a nascere dalla società e non la società dagli individui” (DI NUOSCIO 1996: 318). L’homo sociologicus non ha una sua autonomia e non è protagonista delle sue azioni.

Positivismo e storicismo
Nella misura in cui ritengono di avere scoperto le eterne leggi che regolano dall’esterno e dall’alto il regolare succedersi degli eventi umani, anche il positivismo di Comte e un certo storicismo finiscono per porre il singolo in posizione subalterna e secondaria nei confronti dello Stato.

Luhman
E lo stesso avviene con la teoria autoreferenziale di Luhman, dove l’individuo, ancora una volta, si trova relegato in una posizione di secondo piano rispetto al sistema sociale. Infatti, pur ammettendo che “i sistemi sociali sorgono in seguito ai rumori prodotti dai sistemi psichici che tentano di comunicare tra loro” (1990: 356), Luhman non ne conclude “alcun primato ontologico dell’individualità umana” (1990: 414).

Istituzionalismo
Anche per il cosiddetto istituzionalismo, il comportamento dell’individuo non è autonomo, ma è determinato dalle norme sociali e dai ruoli istituzionali. Tra i più autorevoli sostenitori di questa teoria si possono ricordare T.B. Veblen, S.P. Huntington, J.G. March, J.P. Olsen e H. Kelsen. Per quest’ultimo, lo Stato, in quanto persona giuridica, è ben più importante del singolo individuo. “Le volontà delle singole personalità – scrive Kelsen – liberano una misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica” (1995: 53). In questo contesto la libertà individuale scompare: “i cittadini dello Stato sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (KELSEN 1995: 54). “Alla libertà dell’individuo viene a sostituirsi, come esigenza fondamentale, la sovranità popolare o, che è lo stesso, lo Stato autonomo, libero” (KELSEN 1995: 55).

Primi segni di crisi dell’olismo
È solo dopo la Rivoluzione francese che un numero crescente di olisti comincia a prendere coscienza dell’insostenibilità della propria tesi e il massiccio e inossidabile fronte dell’olismo mostra le prime crepe, anche se ciò non indebolisce l’opposizione all’individualismo, che continua ad essere associato all’egoismo e indicato come il “fattore principale di disgregazione sociale” (LAURENT 1986: 46). Ancora oggi, questa etichetta infamante fa presa sulla gente e, ancora oggi, secondo l’opinione prevalente, il termine «individualismo» assume un significato spregevole, mentre, per converso, tutte le accezioni del termine «collettivismo» tendono a conservare connotazioni positive. Insomma, nonostante le crepe, il collettivismo mantiene ben salda la sua posizione di preminenza.

Limiti dell’olismo
Ma, allora, come dobbiamo porci di fronte all’olismo? Possiamo condividere i suoi princìpi? O no? La mia risposta è, senza tanti giri di parole, negativa, per ragioni che anticipo brevemente qui di seguito e che illustrerò meglio nel capitolo seguente. Il principale limite concettuale delle teorie olistiche risiede in questo, che esse non sono autosufficienti e, per reggersi in piedi, hanno bisogno di ricorrere alla psicologia di quegli stessi individui che esse contestano. È incontrovertibile, infatti, che nessuno degli esponenti della tradizione collettivistica, da Saint-Simon a Comte, da Durkheim a Parsons, è riuscito ad evitare di fare ricorso, nei suoi studi, a quei metodi individualistici che pure nega. “Di fatto – osserva Hans – i rappresentanti delle tradizioni collettivistiche sono costretti per lo più a richiamarsi a enunciati di tipo psicologico e a interpretazioni individualistiche” (1993: 600). La presunta oggettività delle leggi sociali non ha retto alle critiche di studiosi, come Habermas e Touraine, i quali hanno osservato che anche lo scienziato che nega valore all’individuo è un individuo egli stesso e, come tale, non può fare a meno di interpretare soggettivamente tutto ciò che descrive. Strano destino quello dei collettivisti: negare l’individualismo in via di principio e, contemporaneamente, ricorrervi per necessità! Questa aporia basta a provare l’inconsistenza delle teorie collettivistiche.
Ma c’è di più: il collettivismo è costretto ad ammettere che lo Stato è antecedente all’individuo e indipendente da esso, ma poi non è in grado di dimostrare questa presunta verità che, a parer nostro, è indimostrabile. In realtà, sembra vero il contrario, e cioè che è l’individuo che precede lo Stato, mentre la società deriva dall’individuo, è un suo prodotto e un suo strumento. Anche per questo il collettivismo è insostenibile, perché trascura e mortifica gli unici soggetti vivi e senzienti, che sono gli individui. Inoltre, il collettivismo è criticabile perché favorisce l’intolleranza e la violenza nei rapporti fra popoli e Stati. Infatti, dalla logica di gruppo prendono origine entità etniche, nazionali o religiose, che, rivendicando, esplicitamente o implicitamente, una propria presunta superiorità nei confronti di tutte le altre entità similari, giungono fino all’esaltazione fanatica di sé e alla negazione dell’altro, alimentando idee (come quelle di unica chiesa, popolo eletto e nazionalismo di Stato), che prevedono un punto di vista privilegiato, al di fuori del quale c’è solo mediocrità e menzogna. “Per questa ragione tutte le dottrine collettivistiche sono foriere di odio irriconciliabile e di guerra fino alla morte” (ANTISERI e AA. 1987: 38).

08. L'individuo e lo Stato

“L’uomo è un essere manchevole, ha bisogno della società” (DAHRENDORF 1994: 26) e trova piena soddisfazione “solo quando si sente riconosciuto come entità significativa nella collettività in cui vive” (PARENTI 1987: 48). In realtà, queste espressioni non sono del tutto esatte. L’uomo, infatti, non è “manchevole” della dimensione sociale: la contiene già. Egli produce socialità e gruppi organizzati allo stesso modo in cui produce ormoni e globuli rossi, e “ha bisogno della società” nello stesso modo in cui ha bisogno degli ormoni e dei globuli rossi, e cioè non come di qualcosa che gli è esterna, ma come qualcosa che gli è connaturata e gli appartiene. Inoltre, per un individuo è certamente importante essere riconosciuto dagli altri nel suo ruolo sociale, ma è altrettanto importante il suo livello di autostima. Se tale livello è basso, un soggetto può decidere di farla finita, anche se altri lo apprezzano, mentre, se la sua autostima è elevata, egli può resistere ad un prolungato stato di disistima sociale. Il punto nevralgico è, ancora una volta, l’individuo, non la società, anche se ciò non vuol dire che il ruolo della società sia di scarso valore.

L’individuo tra egoismo e socialità
In realtà l’individuo può essere concepito come la sintesi di due distinte dimensioni, l’una sociale l’altra individuale, da cui prendono origine due distinti sentimenti: il sentimento sociale, che suscita “il bisogno di integrarsi con i propri simili e di cooperare con loro” (PARENTI 1987: 48), e il sentimento individuale, che genera la «volontà di potenza», ossia l’aspirazione ad emergere e “primeggiare sugli altri” (ADLER 1994: 40). Dal sentimento sociale nascono i princìpi morali, la moderazione, l’etica, la solidarietà, il diritto e la politica; dal sentimento individuale prendono origine l’egoismo, le prevaricazioni, le ingiustizie, le azioni violente e le guerre. Le due tendenze stanno fra loro in un rapporto inversamente proporzionale, nel senso che all’aumentare dell’una si riduce l’altra, e viceversa. A seconda che prevalga l’uno o l’altro sentimento, e ciò dipende tanto dalla biologia del singolo individuo quanto dall’educazione, avremo persone con caratteri diversi, che, a loro volta, daranno vita a società di tipo diverso: le condizioni di vita della gente saranno tanto migliori quanto più sarà preminente il sentimento sociale e tanto peggiori quanto più sarà preminente il sentimento individuale.

Dalla famiglia allo Stato
Il più piccolo gruppo sociale, in grado di soddisfare i bisogni dell’individuo, è la famiglia, all’interno della quale, i rapporti relazionali fra i singoli membri in parte obbediscono al principio di forza, in parte dipendono da due potenti legami biologici, che abbiamo indicato nel sesso e nell’attrazione parentale. All’interno della famiglia, ogni membro è un soggetto di valore e i rapporti interindividuali si svolgono su un piano paritario. Nel tentativo di controllare meglio il territorio e di porsi nelle migliori condizioni possibili mentre compete con altri gruppi, l’uomo ha ampliato progressivamente le dimensioni del nucleo familiare, fondando, nell’ordine, la banda, il clan e la tribù, senza, tuttavia, rinunciare al rapporto egalitario fra gli individui membri. Fino alla società tribale, infatti, non si osservano rilevanti logiche di potere e prevale l’equilibrio paritetico nel rapporto interindividuale: né l’individuo ha una qualche supremazia sul suo gruppo, né il gruppo sovrasta l’individuo, ma entrambi sono, nello stesso tempo, interdipendenti e sovrani. È un equilibrio mirabile, che si spezza nel momento in cui l’inarrestabile corsa alla realizzazione di gruppi sempre più estesi porta alla nascita dello Stato. In teoria, e per logica, lo Stato dovrebbe costituire un semplice superamento della società tribale e la sua affermazione dovrebbe giustificarsi solo in virtù del fatto che esso garantisce meglio la sicurezza e la libertà dei singoli individui. In realtà, invece, le cose procedono in tutt’altra direzione, probabilmente, alquanto inaspettata e generano delle conseguenze non sempre positive.

Lo Stato nasce dalla forza
Il principale problema nasce dall’evidenza che la formazione degli Stati avviene generalmente mediante l’uso della forza e a prezzo del sacrificio di un certo numero di individui. A quel punto la gente si divide: i più facinorosi e combattivi si dichiarano favorevoli alla guerra e vedono nel sacrificio di alcuni il giusto prezzo da pagare per un futuro migliore dell’intera comunità; altri, invece, trovano ingiustificato quello spargimento di sangue e ritengono che si possa vivere ugualmente bene anche alla vecchia maniera tribale. Le tensioni sociali che vengono generate da questa duplice corrente condizionano la storia di molte popolazioni, che, per periodi anche molto lunghi, è caratterizzata dall’alternanza di stati di guerra e stati di quiete, a seconda che prevalga l’una corrente o l’altra. Nella storia delle tribù ebraiche questa fase corrisponde al cosiddetto periodo dei Giudici, che va da Mosè a Saul. Talvolta la gravità della situazione è tale che anche i più convinti pacifisti non possono esimersi dall’impugnare le armi e mettersi al seguito di un condottiero, che, in certe circostanze favorevoli, riesce a farsi nominare re e a fondare uno Stato. Non sempre, tuttavia, la fondazione di uno Stato pone termine alle tensioni sociali, perché i vecchi pacifisti, ottenuto lo scopo di superare l’emergenza, continuano a sognare la vita tribale, mentre la nuova classe dirigente guarda avanti e punta sul consolidamento dello Stato e su una politica di forza.

Perché nasce uno Stato?
Secondo le nostre conoscenze, possiamo dare per certo che lo Stato nasce solo dopo la scoperta dell’agricoltura in risposta ai rapporti di forza che regolano la conquista e il possesso della terra. Anche se non abbiamo documenti storici al riguardo, possiamo ritenere scontato che, almeno nelle regioni più popolate, una terra poteva essere conquistata e conservata con l’uso della forza. Alla fine, il gruppo più forte coltiva la terra che ha conquistato e la difende dalla bramosia di eventuali altri gruppi pretendenti. Ma quando più tribù si uniscono sotto un solo capo, esse possono riuscire nell’impresa di conquistare un territorio tanto vasto da meritare il nome di Stato. Quando ciò avviene, il capo vittorioso divide il territorio conquistato coi capitribù che si sono schierati al suo fianco, i quali, a loro volta, dividono il proprio territorio coi capiclan e questi coi capifamiglia, mentre i perdenti vengono sterminati o resi schiavi. Si forma così la cosiddetta società duale, dove è facilmente riconoscibile una classe dominante, formata dai neo-proprietari conquistatori, e una massa sottomessa, formata dagli ex-proprietari sconfitti. Inizialmente e solo per difendere lo Stato da eventuali aggressioni, il capo mantiene un piccolo esercito al proprio servizio e impone e riscuote un tributo da tutti i sudditi, al fine di far fronte alle spese militari ma, di fatto, anche per imporre la propria volontà. Una volta costituitosi, anche quando l’azione di conquista è giunta al termine e non si profila all’orizzonte il pericolo di nuove guerre, lo Stato tende a conservarsi, con tutto il suo apparato di potere e la sua gerarchia sociale. A questo punto la popolazione tende a dividersi: i proprietari terrieri e chi ha qualche privilegio da difendere sostengono lo Stato, tutti gli altri vedono in esso un pessimo affare e ricordano con nostalgia la vita tribale, alla quale farebbero certamente ritorno se ne avessero la facoltà. Ma lo Stato non può permetterlo, perché senza di loro esso crollerebbe. Si afferma così il principio della ragion di Stato, in virtù del quale la forza militare viene usata per costringere ciascuno al proprio posto e indurlo a contribuire alla preservazione dello Stato stesso.

Nascita del pensiero politico
È in questo contesto che, in un luogo e in un giorno imprecisati, un pensatore, che non conosciamo, si pone la domanda: “vale di più la ragion di Stato o quella dell’individuo?” Su tale interrogativo, nel corso dei secoli si vengono a formare diverse teorie, che possono essere raggruppate in due grandi categorie: le teorie organicistiche (o strutturalistiche o olistiche), che affermano il primato della società sull’individuo, e le teorie individualistiche (o nominalistiche o atomistiche), che mettono al primo posto l’individuo. Per le prime, la società è come un grande organismo vivente, ben più importante dei singoli membri che la costituiscono; per le seconde, esistono soltanto gli individui e la società non è che una rappresentazione mentale. L’olismo esprime il punto di vista del principe, l’atomismo quello dei cittadini; il primo è monocratico e procede dall’alto in basso per deleghe successive, il secondo è democratico e procede dal basso in alto per rappresentanza, o in orizzontale nelle DD.

Il pensiero olista
Alla base del pensiero olista c’è l’idea che lo Stato ha una dignità personale e, in quanto persona, anche lo Stato ha una volontà e dei bisogni, anch’esso è spinto da motivazioni e ha degli scopi, solo che i bisogni e gli scopi dello Stato sono di gran lunga prevalenti rispetto a quelli del singolo individuo. Così, quando gli interessi dello Stato divergono da quelli dell’individuo, è quest’ultimo che deve adeguarsi e sottomettersi, sino al sacrificio della propria stessa vita. Alla fine, il cittadino si trova costretto a rinunciare alla propria sovranità personale, che viene assunta dallo Stato. Questa svolta viene chiamata olismo (cfr. cap. 9).

L’idea di Stato come persona
“Come gli individui, le nazioni hanno una testa, un cuore e uno stomaco” (KHANNA 2009: 28). Ancora oggi, dunque, continua ad essere attuale l’idea che lo Stato si comporta come un essere umano e, come tale, anch’esso è portatore di diritti, di doveri, di aspirazioni e di interessi. Si parla perfino di “psicologia statale” (KHANNA 2009: 28). Uno Stato pensa, decide, soffre, esulta, emana una legge, si siede al tavolo dei negoziati, cerca alleanze, stringe rapporti commerciali, dichiara guerra, si arma e si disarma, compra e vende, tesse trame politiche e sottoscrive diritti internazionali, come se fosse una persona in carne e ossa. Gli Stati Uniti acquistano la Louisiana dalla Francia e l’Alaska dalla Russia, allo stesso modo in cui il signor Rossi acquista un terreno dal signor Bianchi. “I trattati internazionali sono anzitutto contratti. Gli Stati, come gli individui, ne hanno bisogno per commerciare, navigare, difendere i propri beni, fissare i confini tra le rispettive proprietà, risarcire danni o incassare indennizzi, comprare terre, venderle o affittarle” (ROMANO 1998: 663). Ma c’è un problema: se nelle controversie fra individui si ricorre alla giustizia dello Stato, chi può fare da giudice nelle controversie internazionali? Fino al XVII secolo, questo ruolo è stato svolto, in qualche modo, dalle figure dell’imperatore e del papa, ma poi, con l’affermarsi del principio di sovranità dello Stato, le cose hanno cominciato a complicarsi. “Se ogni Stato è sovrano e non vi è autorità che possa imporre ai firmatari le proprie decisioni, i trattati durano esattamente quanto la convenienza delle parti alla loro osservanza” (ROMANO 1998: 664).
Che succede, dunque, quando due Stati litigano? In caso di disaccordo insanabile, per uno Stato non c’è altro modo di far valere il proprio punto di vista se non il ricorso alla forza. Così, “la guerra è un rischio a cui sono esposti permanentemente gli Stati per quanto bene ordinati” (POGGI 1998: 365). Quando due Stati si dichiarano guerra, masse di uomini impugnano le armi gli uni contro gli altri per delle ragioni che non riguardano necessariamente gli individui combattenti. Gli Stati sovrani, infatti, sono come uomini di livello superiore (chiamiamoli pure Superuomini, Titani o Esseri divini), i cui interessi sovrastano e annullano quelli degli individui umani in carne ed ossa. In pratica, in mancanza di un potere sopranazionale, gli Stati si comportano come si comportavano i gruppi tribali dieci mila anni fa: secondo il proprio arbitrio assoluto e senza dover rendere conto ad alcuno. A ben guardare, l’affermazione dello Stato implica un ritorno indietro nel tempo, quando gli uomini vivevano in gruppi tribali e senza legge, ma con un’importante differenza: le tribù erano in prevalenza nomadi e, in caso di pericolo, non esitavano a trasferirsi altrove; lo Stato, invece, ha un territorio ben delimitato e, in caso di pericolo, non può far altro che impugnare le armi. Per gli Stati, insomma, vale il principio hobbesiano dell’”homo homini lupus” e del principio di forza.

Perdita di ruolo dell’individuo
La più importante novità introdotta dallo Stato è la perdita dell’uguaglianza degli individui: se prima, sia nella famiglia che nella tribù, ogni individuo costituiva un valore assoluto ed era trattato sempre come un «fine», adesso egli deve fare i conti con la persona dello Stato, che lo sovrasta e gli impone la superiore logica del gruppo. Nello Stato non conta il singolo individuo: conta l’istituzione, la corporazione, il partito, l’azienda, la chiesa, la famiglia, la stirpe, il lignaggio, e l’uguaglianza individuale, che poi si traduce, in pratica, nel riconoscimento del diritto alle pari opportunità, è solo un lontano ricordo. Nel momento e nella misura in cui lo Stato chiede il sacrificio del singolo a vantaggio della suprema logica del gruppo e dell’istituzione, suonano le campane a morto per le uguaglianze individuali. Da questo momento, l’unità fondamentale dello Stato non è l’individuo, bensì il gruppo solidale, qualsiasi gruppo solidale, il cui proprotipo è la famiglia. Così come l’individuo è chiamato a piegarsi di fronte alla suprema autorità dello Stato, allo stesso modo egli dovrà sottomettersi davanti al superiore interesse della sua famiglia, che è rappresentato dalla volontà del capofamiglia. La logica della famiglia rispecchia e si identifica con quella dello Stato e, insieme, cancellano ogni ricordo dell’originaria condizione paritetica fra gli individui, a tal punto che la famiglia diviene la principale causa di discriminazione.

Disuguaglianza di nascita
Per Hayek, è insito nella stessa logica di famiglia che “il punto di partenza dei diversi individui, e quindi anche le loro prospettive, siano diversi” (1994: 340). Ne consegue, secondo lo studioso, che, essendo la famiglia un bene indiscutibile, anche le disuguaglianze che essa genera devono essere un bene. Legittimando le differenze alla nascita, Hayek giunge coerentemente ad affermare che l’U. di opportunità è “un ideale totalmente illusorio, ed ogni tentativo per realizzarlo concretamente potrebbe divenire un incubo” (1994: 289-90). Una volta accettata la disuguaglianza di nascita, come destino ineludibile dell’uomo civilizzato, si aprono le porte alla società duale, dove una sparuta minoranza di potenti famiglie domina sul resto della popolazione. Le disuguaglianze generate dalla famiglia vengono amplificate dalla presenza dello Stato e dalla gerarchia sociale su cui esso poggia.

Dall’individuo, al cittadino, alla persona
Nello Stato alcuni cittadini vengono esaltati fino a diventare monarchi e sovrani, altri vengono penalizzati, fino a diventare schiavi. Se prima ci si poteva riferire all’homo con i termini, generici e intercambiabili, di “individuo”, “essere umano”, “soggetto”, adesso si avverte la necessità di aggiungere i termini di “persona” e “cittadino”, che sono atti a differenziare i membri di una popolazione. Infatti, mentre il termine “individuo“ ha valore universale e si applica indistintamente e incondizionatamente a tutti gli esseri umani, li accomuna e li rende uguali, i termini “cittadino“ e “persona“ obbediscono ad una logica di potere e servono a distinguere gli esseri umani secondo una scala di valore: tutti sono individui, ma non tutti sono persone o cittadini.
Le idee di “persona“ e “cittadino“ devono intendersi come una diretta conseguenza della nascita dello Stato e della sua organizzazione sociale, religiosa, politica e militare. Esse si affermano allorché, di fronte a questioni di interesse generale, si comincia a cercare una risposta a domande del tipo: a chi spetta il potere di decidere? Chi deve sottomettersi? Alla fine, avviene che una minoranza si appropria di quasi tutte le risorse e si organizza allo scopo di rendere stabile la propria posizione di privilegio. Si affermano così le figure delle autorità sociali, politiche, militari, religiose e burocratiche, che, tutte insieme, vanno a costituire quella che verrà chiamata “classe dominante”. Nello stesso tempo una piccola schiera di letterati si mette al servizio di queste figure e contribuisce alla legittimazione ideologica del loro ruolo e alla diffusione, presso le masse subalterne, di un modello di virtù civica, che si compendia nei valori del sacrificio e dell’obbedienza alle legittime autorità.
Secondo Fromm, “così facendo, durante gran parte della storia una minoranza ha dominato la maggioranza” (1996: 17). Non sempre però i dominati si sono rassegnati a subire passivamente la loro condizione e, talvolta, sono riusciti ad organizzare delle efficaci azioni di protesta o di ribellione aperta, ottenendo alcune importanti concessioni. È nel quadro di queste lotte sociali che trovano reale applicazione i nuovi termini “cittadino“ e “persona“, l’uno con significato politico, l’altro religioso: sono gli appellativi che i vincitori applicano a se stessi per distinguersi dai perdenti, dai semplici sudditi o dagli schiavi.

Cittadino
Cittadino è un soggetto riconosciuto dallo Stato come portatore di doveri, ma anche di diritti, un soggetto giuridico accreditato di una qualche forma (per quanto risibile) di partecipazione al potere politico, e, comunque, sensibilmente privilegiato nei confronti dei non-cittadini. Nell’antica Atene, cittadini a pieno titolo sono tutti i maschi adulti nati da genitori ateniesi, i quali dispongono di donne e schiavi che lavorano per loro e possono dedicare molto del proprio tempo al governo della città, non essendo rappresentati da alcuno e godendo della pienezza dei diritti sociali e politici. Sotto l’Impero romano, il cittadino possiede alcuni diritti civili e giuridici, come quello di far carriera o di appellarsi all’imperatore, ma è privo di diritti politici e non partecipa in alcun modo al governo dell’Impero, non sceglie i propri rappresentanti, né può opporsi al regime; può invece chiedere «pane e divertimenti», e in ciò l’imperatore tende ad accontentarlo. “L’idea del cittadino come soggetto politico autonomo, libero ed indipendente dal potere, nasce nell’età delle Rivoluzioni americana e francese” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 52), ma dovrà passare molto tempo prima che il diritto di cittadinanza venga esteso a tutti i residenti di uno Stato. Per Kant, sono tre le prerogative del cittadino: la libertà da costrizioni esterne (ossia la facoltà di obbedire solo alle leggi alle quali egli abbia dato consenso), l’eguaglianza di fronte alla legge e l’indipendenza economica. Il povero e il servo sono esclusi dalla cittadinanza e dai relativi diritti. E oggi? Benché oggi il titolo di cittadino sia esteso a tutti i residenti stabili nel territorio di uno Stato democratico, in realtà, anche se non lo si dice, c’è ancora un netto divario tra i cittadini di serie A (per es., i parlamentari) e quelli di serie B (i “semplici” cittadini).

Persona
Lo stesso discrimine è rinvenibile nel termine persona. Già dall’origine etimologica (i termini, greco e latino, pròsopon e persona, designano semplicemente la maschera teatrale) si capisce che questo termine va applicato all’individuo in rapporto al ruolo che egli occupa nella società e, dunque, rappresenta un fattore tipicamente differenziante. “Essere una persona, o avere una personalità, significa letteralmente indossare una maschera” (ELLIOT, LEMERT 2007: 23), ossia calarsi in un ruolo artificioso e non proprio, che può variare a seconda delle circostanze e degli scopi che il soggetto si prefigge di conseguire. Il significato del termine cambia con l’avvento del cristianesimo, che lo usa per la prima volta con Tertulliano e poi coi Padri della chiesa in riferimento alla questione trinitaria, per indicare la pienezza dell’essere, ossia la sostanza divina, che ha in sé la causa e la ragione del proprio essere. È Saverino Boezio che, per primo, applica il termine all’uomo in quanto unico essere razionale, dunque, di livello superiore rispetto a qualunque altro animale, inferiore solo alla persona divina. Così sarà anche per Tommaso d’Aquino, il quale, però, collega, in qualche modo, la razionalità dell’uomo alla sua anima: l’uomo è persona perché ha un’anima che gli conferisce delle qualità nobilitanti, fra cui la razionalità. In definitiva, il termine “persona” serve dunque a spiegare la superiorità dell’uomo fra tutte le creature viventi.
I filosofi laici, come Cartesio e Kant, ritengono che la superiorità personale non richieda l’esistenza di un’anima, ma possa fondarsi unicamente sulla facoltà del pensiero e dell’autocoscienza, che sono specifici dell’uomo: l’uomo è persona perché. a differenza degli altri animali, pensa ed è autocosciente. Considerando queste posizioni riduttive, il cristiano ribadisce che, in fondo, ciò che conferisce all’uomo la sua «superiorità» “è il fatto di posserede un’anima spirituale” (BASTI 1995: 334) o, il che è lo stesso, l’essere fatto ad immagine di Dio, e questa rimane ancora oggi l’opinione prevalente in seno al cristianesimo. È in virtù di questa sua superiorità che è possibile riconoscere solo all’uomo il diritto di sovranità su se stesso. “Dire che qualcuno è una persona, vuol dire che ha il suo valore in se stesso; che ha dunque il diritto di svilupparsi liberamente; che non è naturalmente subordinato a nessun altro” (LECLERCQ 1965: 50). Come persona, l’uomo è “padrone del proprio destino, sovrano nel senso che decide della sua vita e ne decide da solo” (LECLERCQ 1965: 51).
Così stando le cose, per il cristiano gli uomini dovrebbero essere uguali in dignità e diritti: tutti fratelli, tutti sovrani. Ma così in pratica non è, perché un individuo, che non è membro di una chiesa, può non essere ritenuto persona e può essere costretto con la forza ad entrarvi oppure essere soppresso, come si fa con un animale pericoloso. Tale era la realtà dell’Occidente, almeno fino alla scoperta e alla conquista del Nuovo Mondo. È vero che oggi la posizione della chiesa cattolica al riguardo è notevolmente cambiata ed è anche vero che essa oggi proclama che tutti gli uomini sono “persone” a pieno titolo. Ma solo a parole! Se così fosse davvero, non avrebbe alcun senso mantenere la divisione fra le diverse chiese. Il fatto che ogni chiesa rimane separata da tutte le altre dimostra che, in fondo, ciascuna ritiene, anche se non lo dice espressamente, di essere superiore alle altre e, per estensione, anche i propri membri si ritengono superiori, cioè le uniche “persone” a pieno titolo. In definitiva, tutti sono persone, ma non tutti lo sono allo stesso modo.

La posizione dell’individualismo
Nello stesso momento in cui, in obbedienza ad una logica del potere, entrano nell’uso i nuovi attributi di “cittadino” e “persona”, cade in discredito il concetto di “individuo“ e tutto ciò che questo termine sta a significare. Ebbene, secondo l’I.smo, è arrivato il momento di restituire all’individuo il suo primato originario. Lo Stato è accettabile solo se svolge una funzione di servizio per ogni singolo individuo e non di questo o quel gruppo, e nemmeno della «maggior parte». Come ha osservato Nozick, uno Stato che chiedesse sacrifici e, peggio ancora, la vita, ad un individuo, a vantaggio anche della «maggior parte», sarebbe uno Stato ingiusto; esso, infatti, non tiene conto che, per quell’individuo, la sua è l’unica vita che possiede e nessun bene comune può avere maggiore valore di quella. Per l’I.smo, tutto il significato che è contenuto nei termini “persona” e “cittadino” dev’essere ricondotto e sussunto nel termine “individuo”: ogni individuo è insieme persona e cittadino, ogni individuo è sovrano, ogni individuo non è meno importante dello Stato.