martedì 21 luglio 2009

11. I diritti individuali

Se non riconoscessimo il valore dell’individuo, non potremmo giustificare alcun diritto fondamentale dell’uomo. A ben guardare, infatti, i diritti derivano dai princìpi dell’individualismo: dal fatto che ogni individuo è un essere autonomo, unico e irripetibile (I.smo ontologico) consegue il diritto di uguaglianza; dal fatto che ogni individuo è una persona morale, capace di discernere il bene dal male e di assumersi responsabilità (I.smo etico), deriva il diritto alla libertà; dal fatto che i veri attori sociali non sono i gruppi o gli Stati, bensì gli individui (I.smo metodologico), deriva il diritto di sovranità individuale. Dai diritti suddetti, che chiamiamo fondamentali, traggono origine tutti gli altri diritti: prima di tutto quello alla vita, che è il diritto personale per eccellenza, e poi quelli sociali (istruzione, lavoro, salute) e quelli politici (libertà di parola, di associazione, di voto, di partecipazione alle questioni d’interesse pubblico, ecc.), che sono riconosciuti dalla nostra Costituzione (I.smo personale, sociale e politico). Nel presente capitolo cercheremo di chiarire il rapporto che lega i diritti democratici ai princìpi dell’I.smo.

Origine del diritto
Abbiamo detto che ciascun individuo nasce unico, eguale nei bisogni e potenzialmente libero e sovrano. Ma perché queste sue caratteristiche, chiamiamole biologiche o naturali, dovrebbero essergli riconosciute come diritto? Anche gli animali nascono unici, uguali, liberi e sovrani, eppure nessun diritto viene loro riconosciuto in natura. Ha senso dire che il coccodrillo non ha il diritto di predare la zebra perché essa ha il diritto di vivere in pace? No, nel mondo animale non ha senso parlare di diritti, e la ragione è semplice: gli animali non hanno né la coscienza di essere soggetti di diritti, né l’idea di diritto, e, senza tali presupposti, il diritto non esiste. Se il diritto non è, e non può essere, un prodotto naturale, per la stessa ragione, è da ritenere improbabile che esso si sia sviluppato all’interno di un istituto naturale per eccellenza qual è la famiglia, dove opera il supremo principio di forza, sia pure mitigato dai legami sessuali e parentali.
L’idea di diritto si afferma invece quando, dopo la scoperta dell’agricoltura, molti gruppi familiari si trovano a vivere a stretto contatto e per un tempo indefinito. Solo in queste condizioni i capifamiglia possono avvertire la necessità di fissare delle norme di comportamento atte a consentire una pacifica convivenza. Il diritto è, dunque, un prodotto culturale, che prende forma nella mente dei capifamiglia nel momento in cui essi acquistano coscienza che molti dei loro problemi e delle loro sofferenze, e perfino la loro morte, possono essere cagionati dai propri vicini. La prevaricazione, la prepotenza e la sopraffazione vengono allora viste come indebite ingerenze dell’uomo sull’uomo e si comincia ad avvertire, e ad esprimere attraverso un linguaggio sempre più evoluto, l’esigenza di giustizia, di princìpi etici e di regole comportamentali, che si traducono, in pratica, nella disapprovazione del furto, della menzogna, del mancato rispetto della parola data e dell’omicidio. È così (e come altrimenti?) che gli uomini adulti maturano il proprio diritto a non essere deprivati dei propri beni e della propria vita. Dovrà passare molto tempo, tuttavia, prima che si comincino ad estendere questi diritti a tutti i membri di una stessa famiglia (donne, anziani e bambini), e ancora di più prima che si cominci a vedere anche gli animali come soggetti di diritto.
La svolta avviene quando alcuni adulti si chiedono per la prima volta «che diritto abbiamo noi di trattare le nostre mogli e i nostri figli come strumenti?». Da quel momento, quell’inquietante interrogativo non cesserà di riecheggiare nelle menti di altri capifamiglia e anche di altri adulti più giovani e più deboli, finendo per creare le basi di quello che sarà il diritto moderno. Ne deriva che siamo noi adulti gli artefici del diritto. Siamo noi adulti che consideriamo inopportuno danneggiarci a vicenda, che rifiutiamo il principio di forza, che reputiamo ingiusto trattare gli esseri viventi (donne, anziani, bambini e, perfino, feti ed embrioni) come se fossero cose. La storia ci insegna infatti che, di tanto in tanto, qua e là, qualche autorevole legislatore ha voluto elevare a dignità di legge questo o quel principio etico, che andava emergendo dal buon senso comune ed era in uso da tempo. Il diritto moderno altro non è, in fondo, che il prodotto di innumerevoli proclamazioni di questo tipo, ossia di elevazione a dignità di legge di sentimenti etici diffusi fra gli adulti, anche se mai, fino a quel momento, espressi in modo esplicito e formale. Nonostante la molteplicità delle forme in cui il diritto si è manifestato nel corso della storia, è possibile individuare un piccolo numero di diritti primari e universali.

Il diritto di vivere
Il più elementare dei diritti è il diritto alla vita biologica (intesa come puro espletamento delle funzioni di tipo vegetativo e animale), che, in ultima analisi, corrisponde alla soddisfazione dei bisogni primari. Fino a tempi recenti, il diritto alla vita è stato sistematicamente negato in nome della ragion di Stato, della patria potestà o del più banale principio di forza, per non parlare dei sacrifici umani praticati da certi popoli nel corso di riti religiosi propiziatori. Il più delle volte si è trattato di semplici fatti di costume, anche se non sono mancate le enunciazioni di principio, come quella, delirante, di Nietzsche, secondo la quale “la maggioranza degli uomini non ha diritto all’esistenza, ma costituisce una disgrazia per gli uomini superiori” (1994: 480). Oggi, per fortuna, la posizione di Nietzsche appare nettamente minoritaria e la stragrande maggioranza delle persone civili è disposta a riconoscere il diritto universale alla vita, almeno a parole. Nei fatti, tuttavia, il diritto alla vita biologica continua ad essere negato: si pensi a tutta la gente che ogni giorno muore nel mondo per miseria, fame, mancanza di cure, ignoranza, criminalità, persecuzioni, genocidi, guerre, e via dicendo. Ancora ai giorni nostri, il diritto alla vita è riconosciuto e rispettato seriamente solo nei paesi più evoluti e civili.
Ma perché uno Stato dovrebbe riconoscere questo diritto? La risposta è banale: perché nessuno chiede di nascere. Ogni individuo è chiamato alla vita da una coppia di adulti con l’avallo, esplicito o implicito, dello Stato. Non esiste un diritto “naturale” alla vita, così come non esistono altri diritti naturali, i diritti essendo solo acquisizioni culturali. Ebbene, come si pone al riguardo la cultura individualista? Quando sta per venire al mondo un bambino, la coppia dei genitori (e lo Stato) possono rifiutarlo e interrompere la gravidanza, oppure accettarlo come figlio e cittadino, attraverso una decisione unilaterale, libera e responsabile, che implica, a vantaggio del neonato stesso, il riconoscimento incondizionato di quei diritti che i suoi genitori rivendicano per se stessi. L’I.smo non riconosce un diritto assoluto alla nascita. Lo zigote non è un soggetto di diritto e non lo è nemmeno l’embrione, almeno fino a quando non abbia acquisito sembianze umane. Entro questo periodo ai genitori dovrebbe essere concessa la facoltà di interrompere una gravidanza indesiderata, a meno che non voglia subentrare lo Stato nell’assunzione di quella responsabilità, ma, nel momento in cui accettano quel bambino, essi si impegnano a riconoscergli il diritto alla vita. Lo zigote e l’embrione traggono il proprio diritto alla nascita e alla vita dalla volontà dei genitori e, in seconda battuta, dal consenso dello Stato, che se ne fa garante in ultima istanza.

Il diritto di dignità
Il diritto alla vita biologica, tuttavia, soddisfa solo la componente animale dell’uomo, ma non risponde ai suoi bisogni di tipo culturale. Di questi bisogni si prendono cura solo i paesi più civili, dove si parla di diritto ad una vita dignitosa. Per esempio, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si legge: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata” (art. 1). Ma che cosa intendiamo per “dignità”? A questo termine afferiscono tutte le qualità di cui l’uomo è dotato allo stato potenziale e che lo caratterizzano. In estrema sintesi, la vita dignitosa è quella dell’uomo autonomo e libero.

Il diritto di morire
Secondo l’I.smo, il diritto alla vita non può prescindere dall’evidente ineluttabilità della morte, ed è perciò necessario contemplare anche un diritto ad una morte dignitosa. Nella logica individualista si deve considerare morto un individuo che abbia perso irrimediabilmente la facoltà di avere rapporti sociali, sia pure ad un livello minimo. In quest’ottica, tenere in vita un essere umano in stato di coma vegetativo irreversibile non è un gesto umanitario e pietoso, è piuttosto un atto di crudeltà. Consapevole che la morte è il destino naturale di ogni essere vivente, l’I.smo è disposto a riconoscere anche il diritto ad una “buona morte”, o eutanasia, in tutti i casi in cui, per un motivo o per l’altro, i rapporti sociali siano divenuti impossibili a causa di un’infermità e non ci siano più ragionevoli speranze di un loro recupero.

Il diritto di uguaglianza
Il diritto all’uguaglianza. Si immagini di osservare al microscopio due cellule appena fecondate, dalle quali prenderanno forma rispettivamente un santo e un criminale. Dovremo ammettere che non c’è alcun modo di valutare un individuo dal suo DNA e ne concluderemo che tutti gli individui devono essere considerati geneticamente equivalenti. Il concetto di uguaglianza naturale è stato colto già nell’antichità da pensatori che pure non conoscevano il DNA. Secondo Tucidide, per esempio, “non bisogna credere che un uomo sia molto diverso dagli altri” (I 84,4). Per il sofista Ippia di Elide, gli uomini nascono uguali, ma sono resi diversi dalle leggi, che sono un prodotto arbitrario della cultura umana (in ROSEN 1999: 64). Gli antichi, dunque, avevano intuito che alla nascita gli uomini sono equivalenti (non usiamo il termine “uguali” perché sappiamo che gli individui sono diversi e unici). Dall’equivalenza naturale dovrebbe derivare il riconoscimento alla pari dignità e all’uguaglianza, ma, come abbiamo avuto modo di osservare, se il diritto all’uguaglianza trova facile applicazione nelle società semplici, di tipo familiare o tribale, dove non si fa fatica a considerarlo come un diritto naturale, lo stesso non vale nelle società complesse e negli Stati, dove prevale la logica del gruppo. È giunto il momento di chiederci: come dobbiamo intendere questo dititto, oggi?
Abbiamo visto che, sulla faccia A della lavagna genetica, la natura ha fissato alcuni codici comportamentali, assai semplici e limitati, lasciando all’individuo il compito di scrivere sul lato B della stessa lavagna il proprio progetto di vita. Un individuo diventa santo o criminale non solo perché ha un certo DNA, ma anche perché è vissuto in un certo ambiente e ha voluto percorrere una strada piuttosto che un’altra: ambiente e volontà personale sono le due principali cause delle disuguaglianze. Ora, mentre ritiene giustificate le disuguaglianze che derivano dall’impegno personale, l’I.smo ritiene deprecabili quelle di derivazione ambientale e si adopera allo scopo di realizzare forme di governo che garantiscano pari opportunità a tutti i cittadini.
Uno Stato individualista fa quattro cose: primo, riconosce un’uguaglianza di nascita; secondo, offre pari opportunità a tutti; terzo, promuove la massima valorizzazione di ciascun individuo; quarto, premia i migliori. Partendo dalla convinzione che l’individuo costituisce la risorsa fondamentale di una società, l’I.smo ritiene che compito primario di uno Stato sia quello di mettere ciascun cittadino nelle condizioni migliori perché possa realizzare liberamente il proprio progetto di vita, sia rimuovendo i privilegi per nascita, sia promuovendo ogni iniziativa atta a stimolare le sue potenzialità individuali. Consapevole dell’importanza dell’ambiente per un adeguato sviluppo dell’individuo, l’I.smo riconosce a tutti pari diritto all’educazione e allo studio, oltre al libero accesso a tutte, dico tutte, le forme di informazione.
Secondo l’I.smo, il diritto di uguaglianza non si applica a ciò che dipende dalla libera volontà, dall’intraprendenza, dal coraggio, dalla fatica, dal lavoro, dalla perseveranza, dalla virtù e dall’intelligenza di ciascuno: ciò che l’individuo scrive di proprio pugno sulla propria lavagna genetica va adeguatamente compensato. L’uguaglianza individualista è, dunque, solo di partenza, non di arrivo. La società ideale per l’I.smo è, tuttavia, quella in cui, alla fine, le differenze individuali sono legate solo a fattori genetici e personali, e per niente a fattori ambientali.

Il diritto di libertà
Il diritto alla libertà. Il diritto alla libertà poggia sul seguente assioma: non c’è alcun modo di dimostrare con certezza che il progetto di vita di un individuo sia superiore o inferiore a quello di chiunque altro. Per questo, ciascuno dev’essere reso e lasciato libero di essere se stesso. Secondo l’Ismo, la libertà è un attributo irrinunciabile per un uomo e, paradossalmente, essa costituisce l’unico valore dove non è previsto il diritto di libertà. “Il principio della libertà non può ammettere che si sia liberi di non essere liberi: non è libertà potersi privare della libertà” (MILL 1997b: 118). Riconoscere ad un individuo il diritto a non essere libero equivarrebbe a riconoscergli il diritto a non essere uomo. “La libertà –secondo Godwin– è la scuola dell’intelletto” (1997: 157), dove il soggetto ha modo di potenziare e affinare le facoltà della propria mente, sì da divenire idoneo a realizzare il proprio progetto di vita. Touraine parla di “diritto che ciascun essere umano ha di dare un significato alla propria esistenza” (1998: 154). Il diritto alla libertà conferisce all’uomo quella dignità che gli compete, perché la libertà è “una qualità specificamente umana” (DONNO, GUERRIERI, IURLANO 1987: 126). Senza libertà l’uomo non è compiuto.
Il fatto è che l’uomo non nasce libero, ma deve conquistare questa condizione con l’aiuto determinante di altri. Da ciò deriva l’importanza dell’ambiente esterno e della società. Bisogna educare l’uomo a diventare vero uomo, a coltivare l’intelletto, ad essere indipendente, a sviluppare le proprie facoltà critiche e creative e a ragionare autonomamente con la propria testa. “L’indipendenza è il più prezioso diritto di nascita dell’uomo, quello che ognuno di noi dovrebbe amare al di là di ogni possedimento terreno” (GODWIN 1997: 173). Scondo l’I.smo, lo Stato non deve limitarsi semplicemente a rimuovere gli impedimenti esterno alla libertà individuale, ma deve anche preocccuparsi di promuovere, attivamente e con ogni mezzo possibile, l’individuo, e assicurargli un’educazione e condizioni di vita dignitose. L’I.smo definisce “libero” l’uomo che abbia conquistato un’autonomia di pensiero e sia in grado di esercitarla.

Il diritto di informazione
Il diritto all’informazione. L’uomo non può essere ritenuto responsabile delle sue azioni se non dispone di adeguate informazioni e conoscenze. Per esempio, non è bene che la cura di una pianta o di un animale o di un bambino venga affidata ad una persona che non conosce i bisogni di quella pianta, di quell’animale o di quel bambino. A rigore, non si potrebbe nemmeno essere responsabili nei confronti di se stessi se non si ha una sufficiente conoscenza della propria persona. Ora, se uno non è responsabile delle proprie azioni, non può nemmeno essere ritenuto libero e, viceversa, non si può essere liberi se non si è capaci di assumersi responsabilità. Non c’è libertà senza responsabilità, non c’è responsabilità senza conoscenza, non c’è conoscenza senza informazione. Pertanto, l’I.smo esige che il sistema educativo-scolastico-informativo di uno Stato sia di qualità eccelsa e accessibile a tutti, perché da esso dipende la libertà responsabile dei cittadini, e anche la loro “umanità”. L’offerta di informazione, da sola, non basta a rendere libero un individuo: occorre anche la volontà personale di informarsi. L’informazione va acquisita con l’impegno e la fatica, e l’I.smo considera uomini mancati coloro che, pur potendo informarsi su ciò che li riguarda e conquistare un’indipendenza di giudizio, non lo fanno e preferiscono delegare ad altri ogni responsabilità. Costoro condurranno un’esistenza di tipo animale e non faranno del bene né a se stessi, né agli altri. In una società individualista, tuttavia, essi saranno tollerati e rispettati, anche se non apprezzati.

Il diritto di un Minimo garantito
Il diritto al minimo. Benché, nella storia dei diritti umani, notevoli siano stati i progressi registrati nell’ultimo secolo e mezzo, c’è ancora una grande conquista che aspetta di essere colta, un importante traguardo che dobbiamo ancora raggiungere: il riconoscimento effettivo del diritto incondizionato alla vita dignitosa di tutti gli esseri umani, che chiameremo, con Fromm, “reddito minimo garantito” (1996: 116). Il reddito minimo non è da confondere con sovvenzioni, sussidi e atti caritatevoli di ogni ordine e grado, ma deve rappresentare un vero e proprio diritto inalienabile, una risposta concreta da parte dello Stato ai diritti del cittadino. “L’individuo –sostiene Fromm– deve essere protetto dalla paura e dalla necessità di sottomettersi alla coercizione di chicchessia, e per raggiungere tale scopo la società dovrà fornire, gratuitamente per tutti, i mezzi atti a soddisfare le necessità elementari di esistenza materiale in fatto di alimenti, alloggio e vestiario” (1996: 101). Uno Stato è buono solo se è in grado di dare piena attuazione a questo diritto fondamentale. Secondo Atkinson, “la giustificazione del reddito minimo è che esso è un complemento essenziale della libertà politica e giuridica; senza un livello minimo di risorse, la libertà non può essere effettiva” (1998: 80).
Qualcuno obietterà che stiamo proponendo sogni irrealizzabili e che ci stiamo muovendo sul terreno della pura utopia, ma così non è, almeno non lo è necessariamente, se non altro per i paesi democratici più evoluti del pianeta, che, certamente, dispongono dei mezzi necessari per raggiungere lo scopo. La proposta avanzata da Atkinson si basa su due punti fondamentali: primo, l’introduzione di un’unica aliquota d’imposta IRPEF del 35%; secondo, la sostituzione dell’attuale sistema previdenziale con l’introduzione, per l’appunto, di un reddito minimo garantito, da corrispondere sotto forma di crediti d’imposta (1998: 3). In altri termini, tutti i membri della popolazione presenterebbero la propria denuncia dei redditi e mentre i percettori di redditi superiori ad un certo limite pagherebbero il 35% di tasse sui loro profitti, coloro che hanno un reddito inferiore riceverebbero un rimborso IRPEF fino ad un ammontare pari al reddito minimo prestabilito: semplice e geniale. Secondo Atkinson, questa proposta è “praticabile”, e noi concordiamo con lui.

Il diritto di sovranità
Il diritto alla sovranità. Dal diritto alla libertà deriva quello alla sovranità, che può essere così espresso: in quanto persona libera, a ciascuno dev’essere riconosciuta la piena sovranità su se stesso. “Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società –scrive Mill– è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano” (1997b: 13). In pratica, nel privato ciascuno risponderà alla sua propria coscienza, come suggerisce Montaigne (1988: 299) con queste belle parole: “Io ho le mie leggi ed il mio tribunale per giudicare di me, e mi ci rivolgo più che altrove. Restringo bene secondo gli altri le mie azioni, ma non le intendo che secondo me. Non ci siete che voi che sapete se siete vili e crudeli, o leali e devoti; gli altri non vi vedono affatto, vi indovinano per congetture incerte; vedono non tanto la vostra natura quanto i vostri artifici. Così che non vi attenete alla loro sentenza; attenetevi alla vostra”. La sovranità individuale non è, tuttavia, da intendere in senso assoluto. Solo un dio può essere pienamente sovrano, mentre all’individuo, che si muove nell’ambito del contingente, potrà essere concessa solo una sovranità relativa, che non può e non deve prescindere dalla dimensione sociale del soggetto. La sovranità di un individuo finisce là dove inizia la sovranità di un suo simile ed è prerogativa dello Stato di vigilare affinché non vi siano prevaricazioni di alcun tipo di uno sull’altro.

Limiti al diritto di sovranità
A causa della dimensione sociale dell’individuo, la sovranità personale non può essere illimitata, sfrenata e selvaggia, ma deve fare i conti con due importanti realtà: l’analogo diritto degli altri e la stessa esistenza degli altri. Quanto al primo punto, è bene che ciascuno abbia tanta sovranità quanta ne desidera, purché non rechi danno ad altri. E fin qui, credo, tutti siamo disposti a concordare. Meno scontata è, invece, la condivisione del secondo punto, e cioè che la pura e semplice esistenza degli altri debba costituire un limite al nostro diritto di sovranità. Questo principio merita qualche parola di commento e spiegazione.
Vorrei partire da un fatto evidente, e cioè che nulla può essere realizzato dall’individuo che non venga dalla società e nessuna realizzazione individuale può acquistare una qualche rilevanza pubblica se non per mezzo di altri. In altri termini, non c’è impresa o successo individuale che non sia da ricondurre anche al merito di tanti altri. Perfino le più grandi invenzioni acquistano un significato e diventano fruttifere solo nella misura in cui c’è una massa di utenti che le utilizza. È vero che l’inventore del computer è in credito nei confronti di quanti si servono del prodotto del suo ingegno, ma anche lui deve qualcosa a quella massa di utilizzatori di chip, senza dei quali la sua creatività sarebbe priva di senso. In definitiva, tutto ciò che riusciamo a fare lo dobbiamo agli altri ed è inconcepibile una libertà assoluta, che possa prescindere dalla nostra dimensione sociale e dalla pura e semplice presenza degli altri.
Secondo l’I.smo, tutti i beni prodotti dagli uomini devono essere considerati, in ultima analisi, patrimonio dell’umanità, anche se bisogna riconoscere al singolo individuo la facoltà di servirsi in modo esclusivo dei frutti del suo ingegno e del suo lavoro. Insomma, agli esseri umani non si addice la libertà incondizionata e nulla, nemmeno le ricchezze che un individuo ha accumulato meritatamente, possono essere ritenute una sua proprietà assoluta, né possono essere utilizzate in totale libertà. Al ricco, per esempio, non dovrebbe essere riconosciuto il diritto di demolire le proprie case o distruggere i propri beni, per suo puro capriccio e senza una ragione oggettivamente plausibile, e neppure dovrebbe essergli concesso di usare il proprio denaro per costruire strumenti di distruzione e di morte, o in modo di danneggiare l’ambiente pubblico e depauperarlo, o per realizzare opere che denotino un chiaro disprezzo per il genere umano, come una grande e lussuosa residenza per suini, provvista di camere affrescate con vista sul mare, ristorante, ospedale, centri di bellezza e di svago, e perfino cimiteri dedicati a questi nostri compagni di viaggio, con tutto il rispetto per i suini.

Il diritto di equità
Il diritto all’equità. Secondo l’I.smo, lo Stato non deve favorire solo gli interessi di pochi grandi gruppi, ma deve mettersi al servizio dei singoli individui e comportarsi nei loro confronti come un buon padre di famiglia, che non nega a nessuno dei suoi figli, e per nessuna ragione al mondo, il diritto ad una vita dignitosa. Se poi il cittadino non si limita a vivere da parassita, ma si impegna in attività produttive di pubblico interesse, lo Stato dovrà prevedere un’adeguata retribuzione, che, si badi bene, non sostituisce il “minimo”, ma vi si aggiunge. Così i proventi di ciascun individuo risulterebbero costituiti da una duplice fonte: la prima è il “minimo” che la società gli riconosce incondizionatamente, la seconda è la retribuzione che si è meritata col suo lavoro. Solo questa seconda entrata dovrebbe poter essere usata in modo libero e solo essa dovrebbe essere sottoposta alla pressione fiscale.
In una logica individualista, i contratti di lavoro dovrebbero essere individualizzati, nel senso che andrebbero sempre stipulati fra due individui: uno che chiede, l’altro che offre. Anche il merito andrebbe valutato a livello individuale, secondo criteri prestabiliti e noti a tutti. Non c’è ragione alcuna per fissare un tetto ai profitti da lavoro, ma non si debbono ignorare i limiti di natura strettamente biologica di ciascun individuo e bisogna fare attenzione al rischio di possibili tentativi d’inganno. Così, se uno dirà che lavora 24 ore su 24, siamo certi che mente, perché si sa che nessuno può fare a meno del sonno e del riposo. Allo stesso modo, il grado d’impegno personale può condurre a performance molto diverse, ma non così diverse da fare di un uomo un dio. Per quanto brillante possa essere un individuo, infatti, egli non potrà mai superare i limiti della sua “umanità”. Così, c’è da dubitare quando qualcuno osi affermare che le sue capacità produttive superano di mille volte quelle di un suo simile, per il semplice fatto che in natura simili differenze non sono osservabili, né dimostrate. L’I.smo esige che gli individui vengano remunerati secondo condizioni di equità, cioè in rapporto ai loro meriti effettivi, ed entro un range compatibile con le differenze individuali biologiche e personali, valutate con metodi il più possibile scientifici.

Equità e capitalismo
Una delle consuetudini più diffuse nei paesi capitalisti è che gli averi del padre vengono trasmessi ai figli per puro diritto di nascita. Ciò si oppone non solo al principio del merito, che è sempre personale, ma anche ai più elementari principi di efficienza produttiva. Infatti, se un individuo è riuscito a creare, col suo lavoro e le sue capacità, un’azienda da mille miliardi di euro, non è detto che suo figlio provi attrazione per quell’azienda o sia in grado di amministrarla. Ora, è giusto che un impero economico venga lasciato nelle mani di un incapace, chiunque egli sia? Secondo la logica capitalistica si, secondo quella individualistica no. Secondo l’I.smo, alla morte del suo creatore, ogni patrimonio economico diventa patrimonio pubblico e lo Stato vigilerà affinché venga affidato alle persone più meritevoli. L’I.smo segue una logica individuale, laddove il capitalismo è legato ad una logica familiare e di gruppo. Ora è proprio in questa logica di gruppo che dobbiamo vedere la principale fonte di iniquità: il nostro capitalismo tollera che il futuro degli individui venga pesantemente condizionato dalle proprie famiglie d’origine, nel bene e nel male, col risultato che le ricchezze vengono distribuite in modo non corrispondente alle effettive differenze biologiche e culturali degli individui.
Il capitalismo è iniquo nella misura in cui premia o penalizza i gruppi anziché gli individui e la conseguenza è che “l’1% della popolazione possiede il 40% della ricchezza netta totale, ma non possiede certo il 40% del quoziente d’intelligenza totale” (1997: 266). Dall’iniqua distribuzione delle risorse derivano fenomeni, quali la povertà e l’opulenza estrema, le negazioni dei diritti e le ingiustizie. Ora, quando un sistema è iniquo, esso dev’essere necessariamente mantenuto in piedi con la forza: l’imponente apparato militare degli Stati Uniti d’America è lì a dimostrarlo. Siamo condannati a convivere col rischio di terrorismo e di guerre, e un futuro incerto incombe sull’umanità. Ebbene, alla base di tutto questo c’è anche l’iniquità del sistema capitalistico.

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