martedì 21 luglio 2009

07. L'etica

Come si concilia il bisogno di egoismo con quello di socialità? In altri termini, come possono convivere in società ordinate e pacifiche gli innumerevoli egoismi individuali? La risposta va cercata nell’etica, e l’etica si può ben comprendere solo partendo dai bisogni dell’individuo e dalla sua dimensione sociale. Per l’individuo, abbiamo detto, è bene il suo comportamento egoistico. “Gli uomini desiderano essere felici e considerano moralmente buono tutto ciò che contribuisce a soddisfare questo loro desiderio” (KOLAKOWSKI 1978: 946). Se non ci fossero remore morali, ciascuno di noi userebbe gli altri come semplici strumenti per i propri fini. Ma siccome, abbiamo bisogno dei nostri simili, alla fine accettiamo il principio etico di non perseguire scopi a spese e a danno di altri, e concediamo a tutti pari dignità e pari diritti. A questa conclusione, tuttavia, non ci arriviamo spontaneamente, né in modo diretto e senza fatica: sono le esperienze quotidiane che definiscono le nostre idee e indirizzano il nostro comportamento.

Significato e origine dell’etica
Ciascuno di noi apprende dalla propria esperienza che l’ostentazione di uno sfrontato egoismo provoca irritazione e rifiuto da parte degli altri e quindi perdita dei benefici sociali, dei quali non possiamo fare a meno. Se siamo impulsivi, se diciamo la prima cosa che ci viene in mente, se maltrattiamo quelli che ci sono antipatici, se facciamo violenza a coloro che non condividono le nostre idee, se eliminiamo fisicamente o moralmente i nostri avversari, se derubiamo, inganniamo, diffamiamo, non manteniamo gli impegni presi, ci accorgiamo che, a poco a poco, abbiamo scavato un fossato tra noi e gli altri, ci siamo isolati e non possiamo più beneficiare della solidarietà sociale, di cui abbiamo un fondamentale bisogno. In altre parole, ci siamo procurati un danno insostenibile. Nello stesso tempo, impariamo che è molto più vantaggioso un comportamento corretto, accomodante, rispettoso, tollerante e diplomatico, il solo che ci consente di conciliare proficuamente le nostre spinte egoistiche con la nostra imprescindibile esigenza dell’aiuto degli altri. Alla fine, ci comportiamo secondo un certo cliché, che poi provvediamo a trasmettere ai nostri figli attraverso il processo educativo e che, a sua volta, va a rafforzare le singole esperienze personali, instaurando un circolo virtuoso, che sta alla base di quella che chiamiamo “etica” e che caratterizza una particolare cultura. L’etica si sviluppa laddove ci siano almeno due individui che convivono liberamente: in questo caso parliamo di etica di coppia, ma esiste anche un’etica di famiglia, di clan, di tribù, di Stato e di civiltà.
Che cos’è, dunque, l’etica? Come dobbiamo concepirla? L’etica è un complesso di limiti, che ciascun individuo pone al suo comportamento relazionale, sulla base della propria esperienza personale e della cultura sociale dominante, allo scopo di mantenere distesi i rapporti con i propri simili, di cui ha imprescindibile bisogno ed evitare uno stato di guerra di tutti contro tutti, che sarebbe per lui deleterio e insostenibile. Scopo ultimo dell’etica è la conservazione della coesione sociale e poco importa quali siano i suoi contenuti: quello che conta è che essi raggiungano il loro scopo, ossia la sussistenza del gruppo. L’etica è, dunque, un prodotto culturale dell’uomo e, non diversamente dalla cultura, “dev’essere analizzata dal punto di vista della sua utilità per la sopravvivenza” (KOLAKOWSKI 1978: 936).
Fino a quando un gruppo rimane isolato, l’individuo è scarsamente consapevole dei codici etici che limitano il suo comportamento e tende a concepire l’etica come qualcosa di naturale e assoluto, su cui non è il caso di interrogarsi o discutere. Solo quando si confronta con gruppi culturalmente diversi, l’uomo acquista una chiara coscienza dei propri princìpi etici e comprende che essi non così ovvi, come egli era portato a credere, ma sono una sua creazione ed esigono, pertanto, una giustificazione. Questa presa di coscienza, che è conseguenza “dei contatti tra gruppi diversi, dotati di tradizioni mitologiche diverse e diversi costumi” (KOLAKOWSKI 1978: 916), segna l’atto di nascita dell’etica come scienza. In quanto scienza, l’etica studia i motivi e le regole che definiscono il comportamento responsabile dell’attore sociale e fissano i limiti dell’egoismo.
A questo punto siamo in grado di rispondere alla questione: da dove origina l’etica? Anche se è stato detto che essa è prodotta dalla religione e/o dalla ragione e/o dall’istinto, e noi non abbiamo ragioni per non accettare questa origine multifattoriale, tuttavia, ed è questo che ci preme di sottolineare, da dovunque tragga origine, l’etica proviene sempre dall’individuo e mai dallo Stato. “Solo gli individui sembrano capaci di sentimenti morali. Non i popoli” (SEVERINO 1993: 53). L’etica attiene alla libertà e alla responsabilità dell’individuo (il comportamento animale non è etico, perché è geneticamente determinato e, dunque, non libero, né responsabile) e non alla cosiddetta ragion di Stato. Come scrive Aniceto Molinaro, “l’etica è la realizzazione di ciò che l’uomo deve essere come uomo in forza e sulla base della sua libertà, cioè della sua responsabilità” (1977: 137).
Dopo aver chiarito il significato e l’origine dell’etica, dobbiamo adesso interrogarci sui suoi contenuti. Abbiamo detto che l’etica stabilisce ciò che è bene per l’uomo e ciò che è male, ma che cos’è il bene e il male per l’uomo? A questo interrogativo gli uomini hanno dato risposte diverse nel corso dei secoli, senza tuttavia approdare ad una convergenza universale di opinioni. Qui di seguito riporto una breve sintesi dello sviluppo storico del pensiero etico, che può essere suddiviso in tre periodi.

Primo periodo: gli antichi
Secondo la teoria edonistica di Aristippo (V-IV sec.), solo il piacere è bene e solo il dolore è male; una formula semplice e incisiva, che verrà ripresa, sia pure in forma diversa, dall’utilitarismo. Platone afferma che è sufficiente seguire la propria ragione perché l’uomo possa superare ogni avversità e trovare in se stesso il modo di essere felice all’interno della collettività di cui fa parte. Anche per Aristotele la felicità dell’individuo dipende dall’uso strumentale della ragione (il desiderio spinge l’uomo all’azione e la ragione trova il modo migliore per raggiungere lo scopo) ed è strettamente legata a quella del corpo sociale d’appartenenza (al di fuori della polis, ossia privato della sua dimensione sociale, un cittadino è perduto). Partendo dalla posizione edonistica di Aristippo, Epicuro osserva che, se si segue l’interminabile strada dei piaceri, si passa da un bisogno all’altro e non si è mai felic; la felicità consisterebbe allora nel limitare il proprio interesse ai bisogni fondamentali, escludendo tutti gli altri.
Commento - Nella sostanza, gli antichi elaborano la loro teoria etica partendo sia dalla componente istintuale e razionale dell’individuo, sia dallo Stato, senza, tuttavia, riuscire ad esprimere delle norme etiche precise o, se vogliamo, dei comandamenti morali ben definiti. Per gli antichi è bene ciò che piace al soggetto o che torna a suo vantaggio, purché non si perda di vista, grazie al contributo della ragione, l’importanza del fattore sociale e il rischio di eccessi, da cui possono derivare effetti controproducenti per il soggetto stesso.

Secondo periodo: i medievali e i moderni
Il medioevo è dominato dal pensiero cristiano, secondo il quale la ragione non è in grado di perseguire la vera felicità, né di elaborare i princìpi etici che debbono guidare la condotta umana. Al contrario, l’etica cristiana fa derivare l’amore degli uomini dall’amore di Dio e afferma che dobbiamo comportarci in un certo modo solo perché ciò fa piacere a Dio. Accanto all’etica religiosa, soprattutto nell’età moderna, sì va sviluppando anche un’etica laica, che è ben rappresentata da pensatori, come Leibniz, Montaigne, Pascal, Hobbes e Spinoza, secondo i quali l’etica è una maschera ipocrita, che serve all’individuo per nascondere il suo sostanziale egoismo. In realtà, sostiene Spinoza, è bene “ciò che sappiamo con certezza esserci utile” (1980a: 267). L’utilitarismo, per l’appunto, è un tratto che accomuna un gran numero di pensatori dall’antichità all’età moderna. Pur riconoscendogli un’innegabile validità, fintantoché rimane enunciato in modo generico ed equivoco, ossia non stabilisce «per chi» una cosa debba essere utile e non specifica «il significato» di utilità, trovo che questo principio abbia uno scarso valore euristico e non ci porti lontano. A colmare questa lacuna provvede la teoria economica “classica”, secondo la quale, il semplice fatto che qualcuno desideri qualcosa rende lecito il suo comportamento finalizzato a quello scopo, perché, nel mentre e nella misura in cui persegue il proprio tornaconto, il nostro soggetto finisce sempre col realizzare l’interesse generale. È celebre l’affermazione di Smith: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che ci aspettiamo il pranzo, ma dalla considerazione che essi fanno del proprio interesse”. Insomma, mentre ciascuno cerca il proprio utile, fa bene anche agli altri. Così facendo, Smith riesce a trovare il punto d’incontro fra egoismo e altruismo. Secondo questo approccio, ad un egoismo di facciata corrisponde un altruismo di fatto.
Commento - Se la posizione dominante nel medioevo privilegia l’origine religiosa dell’etica e stabilisce, in sostanza, che è etico quel comportamento che rispetta i comandamenti biblici e le disposizioni del magistero della Chiesa, l’età moderna riesuma il modello etico antico di stampo utilitaristico, riuscendo ad ottenere la quadratura del cerchio, a conciliare, cioè, i due opposti: egoismo e altruismo.

Terzo periodo: i contemporanei
Kant trova l’etica cristiana ambigua, perché, facendo derivare l’amore degli uomini dall’amore di Dio, in realtà denota una certa indifferenza nei confronti dell’uomo stesso, che viene ridotto a semplice strumento di santità. Per Kant, Dio vuole che l’uomo pervenga alla propria felicità con i propri mezzi, cioè usando la propria ragione in piena libertà: se Dio avesse voluto che l’uomo fosse reso felice da altri lo avrebbe creato già felice. In tal modo però la felicità non sarebbe stata una conquista, ma semplicemente un dono e non ci sarebbe stato posto per l’etica. Se noi agissimo secondo morale per paura del castigo divino, non saremmo agenti morali. “Se l’azione, invece, procede da princìpi interni, se io la compio unicamente perché essa è buona in se stessa, e quindi con animo ben disposto, allora Dio si compiace di ciò autenticamente” (KANT 1984: 48). Per Kant, la legge è esterna, e ad essa si è costretti ad obbedire; mentre la morale s’impone dall’interno, e ad essa ci si sottomette liberamente, non per costrizione. La libertà individuale è il principio fondante dell’etica. È bene dunque ciò che l’uomo ritiene essere bene, secondo la propria ragione, e la virtù è fare ciò che ciascuno sente il dovere di fare. In pratica, secondo Kant, l’etica consiste nell’agire in modo che la massima della propria azione possa valere come legge universale.
E se la ragione fosse schiava degli istinti, o se fosse inetta e inaffidabile? Dalla rivoluzione darwiniana e dalle scienze umane (sociologia, antropologia, etologia), che si sono affermate dalla metà dell’Ottocento in avanti, l’uomo viene concepito come un animale, che è sottoposto a spinte naturali (provenienti dai suoi geni) e culturali (provenienti dalle sue esperienze), che lo spingono in direzioni diverse, talvolta opposte e contrastanti, e lo inducono ad un comportamento complesso, che può sembrare perfino irrazionale. Tra i pensatori più rappresentativi del nuovo corso ricordiamo Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, Sartre e Barth, i quali rifiutano l’esistenza non solo di un codice morale esterno all’uomo, com’è quello di origine divina, ma anche di un codice razionale interno all’uomo a valenza universale, come aveva suggerito Kant. Per loro è morale qualunque atto il soggetto compia in modo coerente con la propria coscienza.
Commento - Nell’età contemporanea è la coscienza a mettere d’accordo tutti, non solo i laici, ma anche i religiosi. Se la religione –argomenta Planck– rappresenta “l’unione dell’uomo con Dio”, alla fine tale unione si attua “nella coscienza dell’uomo individuale” (1973: 156). Anche per un cristiano, ribadisce Madiner, “tutti i doveri si riassumono in uno solo: bisogna sempre e in ogni momento obbedire alla propria coscienza” (1982: 36). Con questo appello alla coscienza non si fa altro che emancipare l’etica da un dio e da un’astratta “ragione universale” e la si restituisce al suo legittimo protagonista, ossia all’individuo (cfr. LECALDANO 2006), entrando così in un’orbita relativistica: ogni individuo ha la sua etica e ogni etica è sovrana. Insomma, “L’unico inizio possibile per una morale moderna è partire da noi stessi. La morale incomincia dal singolo individuo” (ALBERONI, VECA 1988: 97).

Conclusione
Fin qui ho sostenuto due concetti apparentemente conflittuali: da un lato ho affermato che gli obiettivi primari dell’etica sono quelli di assicurare la coesione del gruppo e dello Stato; dall’altro lato ho asserito che il soggetto dell’etica è l’individuo e che le etiche possibili sono tante quanti gli individui. A questo punto ci dobbiamo chiedere se e come sia possibile conciliare un’etica che obbedisca al principio della ragion di Stato con un’etica che origina dalla coscienza individuale o, detto in altri termini, se e come sia possibile concepire un’etica di Stato che non si ponga al di sopra delle singole etiche personali? Secondo noi, solo un’etica impostata a principi di equità e giustizia può conciliare le ragioni dello Stato con quelle degli individui, ma quest’etica oggi non la vediamo da nessuna parte. Essa è chiaramente contenuta nella Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, ma siamo ancora in attesa che questi diritti vengano resi effettivamente esercitabili da ogni persona.

Nessun commento:

Posta un commento