martedì 21 luglio 2009

09. Il pensiero olista

Dopo l’affermazione dello Stato non ha cessato di risuonare il vecchio interrogativo: «vale di più la ragion di Stato o quella dell’individuo?». Questo interrogativo ha ricevuto le prime risposte organiche da intellettuali di palazzo, i quali, com’è ovvio, si sono schierati dalla parte del principe e hanno assunto posizioni olistiche. Le loro idee sono poi confluite nei racconti mitici e religiosi, che iniziavano a circolare fra la gente, col risultato di rendere familiare l’ideologia olista, a tal punto che essa è stata recepita e tramandata da padre in figlio come una legge naturale e ha dominato incontrastata la scena per millenni, fino a tempi recenti, quando ha cominciato ad emergere il valore dell’individuo e, per la prima volta nella storia, l’I.smo è venuto a rappresentare un’alternativa possibile all’olismo. Ha ragione dunque Bobbio quando afferma che “l’organicismo è prevalentemente antico e l’individualismo è prevalentemente moderno” (1997: 179). Non ci resta che osservare più da vicino le due posizioni. Cominciamo dall’olismo.

La logica della «Ragion di Stato»
Le logiche di potere che si sviluppano consensualmente all’affermazione dei grandi Stati fanno sì che il vero artefice della storia, ossia l’individuo, perda di valore e scenda nell’ombra, mentre acquistano importanza le idee «nazione», «monarchia», «repubblica» o quella più generica di «popolo». “L’individuo si dissolve nel popolo che si costituisce come un’entità organica e indivisibile; lo spirito del popolo diventa il motore della storia e in suo nome si può prendere ogni decisione” (FACCHI 1997: 112). Il protagonista della storia è ora la Città o lo Stato (o il Re, che li rappresenta entrambi), mentre l’individuo, il singolo individuo, è chiamato a sacrificarsi in nome di una qualche superiore ideologia di gruppo e costretto all’obbedienza. Dal momento in cui nasce lo Stato, il mirabile equilibrio fra individuo e gruppo si spezza a favore del gruppo, e prevale l’opinione che i fenomeni sociali siano sottoposti a leggi eterne (naturali o divine che siano) e che l’individuo non sia un soggetto compiuto ed autonomo, bensì un soggetto manchevole, il cui bene personale si riduce ad un semplice riflesso del bene generale.
Questa è la posizione dell’olismo (o collettivismo), che ha dominato la storia negli ultimi tre-quattro millenni ed è stato sostenuto non solo dagli antichi (Platone, Aristotele) e dai medievali (Giovanni di Salisbury, Marsilio da Padova), ma anche dai moderni e dai contemporanei (si pensi all’idealismo, allo strutturalismo, al sociologismo, allo storicismo, allo spiritualismo, al nazionalismo, al funzionalismo, al positivismo, all’organicismo, all’istituzionalismo, al socialismo e a pensatori quali Saint-Simon, Comte, Hegel, Marx, Durkheim e Luhmann). Alla fine, la tesi in cui la maggioranza degli olisti concorda è che “l’individuo è un’astrazione e che solo la totalità è reale” (BOUDON 1991: 470).

La logica del Dio-Padre
Sulla scia dell’olismo si muove anche il pensiero ebraico-cristiano, dal quale prenderà origine quella particolare ideologia chiamata spiritualismo, al cui centro c’è la concezione di un Dio-Padre, perfetto e onnipotente, alla quale fa pendant la figura dell’“uomo-bambino”, di un individuo cioè che è radicalmente incapace di discernimento morale e di autodeterminazione ed ha bisogno di una guida amorevole e paterna. Il vero protagonista è Dio. È Dio che impone la legge, è Dio che dà origine allo Stato, è Dio che destina alcuni al comando altri all’obbedienza, è sempre Dio che si serve degli uomini per realizzare i suoi imperscrutabili progetti. Il singolo individuo non deve far altro che rinunciare a se stesso e farsi docile strumento: deve abbandonarsi e ubbidire (MUNI 1990). È in quest’ottica che si sviluppano le concezioni politiche di Tommaso d’Aquino, Rosmini, Gioberti, e di tanti altri spiritualisti, per i quali l’individuo, in quanto creatura, ha solo un valore riflesso. Anche la chiesa gerarchica, ossia l’insieme dei pastori, ai quali Dio avrebbe affidato il compito di guidare il suo gregge e fissare le norme etiche del comportamento, ha un valore riflesso, ma si tratta di un valore incommensurabilmente superiore a quello del singolo fedele. In fondo, è la chiesa-istituzione che dà valore all’individuo, e non viceversa, e lo stesso individuo, se esce dalla chiesa, perde qualcosa, mentre la chiesa, se perde un individuo, non perde nulla.

L’assolutismo politico dell’età moderna
Fra le più decise teorie olistiche va ricordato l’assolutismo politico, che è stato dibattuto nel XVI-XVIII secolo da autorevoli pensatori, come Bodin, Hobbes e il vescovo francese Bossuet, e, secondo il quale, gli individui umani non hanno mai avuto (o hanno rinunciato, o sono stati deprivati) del proprio potere sovrano, tutti eccetto uno, il monarca, che, come un dio, ha il diritto di comandare, senza essere sindacato. Per definizione, “il sovrano è solo chi non dipende in niente da altri; in niente dal Papa, in niente dall’Imperatore; che dipende completamente da se stesso; che non è legato da alcun vincolo di soggezione personale; il cui potere non è né temporaneo, né delegato, né responsabile verso alcun altro potere sulla terra” (CHEVALLIER 1968: 63).
Per Bodin, come la famiglia non ha che un capo, il cielo non ha che un sole, il cosmo non ha che un Dio, così lo Stato deve avere un principe sovrano, il quale costituisce l’immagine di Dio sulla terra ed è tenuto a sottomettersi unicamente alle leggi di natura, che sono un riflesso della ragione divina, mentre è sciolto (absolutus) dall’autorità delle leggi. “Poiché sulla terra non vi è niente di più grande dei principi sovrani, che vengono solo dopo Dio che li ha stabiliti come suoi luogotenenti per comandare agli altri uomini, bisogna avere nella più alta considerazione la loro dignità, rispettare e riverire la loro maestà in piena obbedienza, nutrir sentimenti di grande rispetto per loro, parlare di loro con estremo riguardo. Chi disprezza il suo principe sovrano disprezza Dio, del quale esso è l’immagine in terra” (BODIN 1964, I-10, p. 477). In definitiva, per Bodin la monarchia è il regime più naturale e migliore che vi sia.
Alle stesse conclusioni approda Hobbes, il quale parte dall’assunto che lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua fra individui sovrani. È per uscire da tale stato che, secondo il filosofo inglese, gli uomini stabiliscono tra loro un contratto, in base al quale trasferiscono la propria personale sovranità ad un «terzo» che, da parte sua, è assolutamente estraneo al contratto stesso e, pertanto, non è legato da alcun obbligo nei confronti di altri. Con questa rinuncia, che è definitiva e irrevocabile, gli uomini si spogliano volontariamente della loro autonomia di giudizio morale e s’impegnano a “tenere per buono e giusto quello che il sovrano ordina, per cattivo e ingiusto che sia quello che egli proibisce” (CHEVALLIER 1968: 84). Dietro l’idea del «contratto» si può intravedere una concezione negativa dell’individuo e un senso di sfiducia nelle sue capacità di autogovernarsi, mentre il sociale (che è incarnato nella figura del re) assume i caratteri della necessità e della preminenza. “La vita giusta [per Hobbes] non è quella dell’individuo, ma quella dell’uomo strettamente dipendente dallo Stato, tanto strettamente da identificarsi necessariamente, anche se in modo parziale, con il sovrano” (DUMONT 1993: 114). Per Hobbes, sarebbe una grave calamità che gli uomini pretendessero di giudicare con la propria coscienza, anziché in base alla legge. “Erigendosi a giudici del bene e del male, gli uomini tornano allo stato di natura, ed alla sua spaventosa anarchia” (CHEVALLIER 1968: 89). La concezione hobbesiana ricorda la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, con una differenza: i nostri progenitori biblici erano stati puniti da un’autorità superiore, mentre gli uomini di Hobbes si puniscono da se medesimi.
Partendo da una posizione di tipo aristotelico (Dio ha creato gli uomini naturalmente socievoli), Bossuet sposa l’idea di Hobbes (gli uomini sono soggetti sovrani che lottano l’un contro l’altro), precisando, tuttavia, che ciò è la conseguenza del peccato originale. Da qui la necessità di un governo. “Se gli uomini fossero angeli –osserverà Hamilton– non occorrerebbe alcun governo” (Il Federalista, p. 458). È la stessa concezione negativa dell’individuo che sta alla base delle moderne democrazie rappresentative. Bossuet conclude che il governo migliore e più naturale è la monarchia assoluta, dove il re agisce in vece di Dio e deve essere rispettato come un dio in terra. Secondo il vescovo francese, il re è tenuto a fare il bene pubblico, e di ciò dovrà rendere conto a Dio. Il popolo, da parte sua, è chiamato all’obbedienza. “Una sola eccezione alla completa obbedienza dovuta al principe: quando egli comanda contro Dio” (CHEVALLIER 1968: 109).

Funzionalismo e organicismo
A conclusioni non dissimili giungono, seppure per vie diverse, il funzionalismo di Malinowski, Merton, Parsons ed Easton e l’organicismo di Schlegel, Schelling, Novalis, Muller e Haller: i primi privilegiano la ragion di Stato, le esigenze delle istituzioni, gli equilibri del sistema, le esigenze del potere politico, la forza delle tradizioni, l’importanza del gruppo e via dicendo, laddove i secondi vedono nello Stato un organismo vivente, del quale i singoli individui sarebbero le cellule e i gruppi gli organi e le membra. Così come il corpo di un essere umano deve essere considerato superiore alle singole cellule e ai singoli organi che lo compongono, allo stesso modo lo Stato è superiore ai singoli individui che lo costituiscono. Entrambi, funzionalisti e organicisti, pongono in secondo piano l’individuo, le sue motivazioni, i suoi bisogni, la sua psicologia, la sua volontà, i suoi sentimenti, la sua coscienza e il suo subconscio, e considerano il tutto superiore alla somma delle parti e lo Stato superiore alla somma dei membri che lo costituiscono.

Lo Stato etico
Nell’Ottocento, dominato dall’idealismo hegeliano, si tende a respingere l’idea che lo Stato sia originato da un “contratto” stipulato da persone libere e si afferma il primato assoluto dello Stato. Per Hegel, lo Stato “diventa un’ipostasi, una sostanza indipendente, le cui norme non sono definite partendo dalla vita reale della società (dalla esperienza), ma dedotte in modo trascendentale (al di fuori dall’esperienza, in modo del tutto concettuale) […]. L’individuo ha oggettività, verità ed eticità, soltanto in quanto è componente dello Stato” (GRUPPI 1969: 103). Secondo Hegel, lo Stato è un ente originario, antecedente e primario rispetto all’individuo, che progredisce incessantemente verso la perfezione, indipendentemente dalla volontà dei singoli membri che lo compongono. “Senza lo Stato l’individuo non ha identità e il popolo è una moltitudine informe” (BARBERA 1997: 29). Per conseguenza, i diritti dell’uomo “vengono fatti derivare esclusivamente dalla volontà dello Stato” (BONGIOVANNI 1997: 83). È la cosiddetta dottrina dello Stato etico, la quale vede nello Stato un fine anziché un mezzo e afferma che è l’uomo a vivere per lo Stato e non viceversa.

Marxismo
Anche per Marx conta solo lo Stato, l’individuo isolato essendo solo un’invenzione della teoria utilitaristica, e non essendoci individuo che non sia stato generato e plasmato da una società. Per il marxismo, i grandi valori etici, come l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà e l’altruismo, non nascono dall’individuo ma dalla storia e, precisamente, dal partito che ne interpreta il senso, ed è per questo che la ragione del collettivo conta più della ragione individuale.

Sociologismo
Nella tradizione collettivistica s’inserisce anche il sociologismo di Durkheim, secondo il quale i fatti sociali non sono determinati dalle azioni, dalle motivazioni, dai sentimenti e dalle coscienze individuali, che sono inosservabili e inconoscibili allo scienziato, bensì dalle leggi sociali, le uniche ad avere valenza oggettiva e a costituire oggetto di ricerca scientifica. Il protagonista degli accadimenti sociali non è l’individuo, ma la società, e “la causa determinante di ogni fatto sociale deve essere cercata tra i fatti sociali antecedenti, e non già tra gli stati della coscienza individuale” (DURKHEIM 1996: 106). L’individuo non ha libera volontà, e non è nemmeno in grado di decidere la forma della sua casa né quella dei suoi abiti, essendo ciò deciso a livello sociale. Ciò che conta è, dunque, la società, e la società viene intesa non come un insieme di soggetti personali, bensì come una totalità, autonoma e primaria rispetto all’individuo, che le è subordinato. “È l’individuo a nascere dalla società e non la società dagli individui” (DI NUOSCIO 1996: 318). L’homo sociologicus non ha una sua autonomia e non è protagonista delle sue azioni.

Positivismo e storicismo
Nella misura in cui ritengono di avere scoperto le eterne leggi che regolano dall’esterno e dall’alto il regolare succedersi degli eventi umani, anche il positivismo di Comte e un certo storicismo finiscono per porre il singolo in posizione subalterna e secondaria nei confronti dello Stato.

Luhman
E lo stesso avviene con la teoria autoreferenziale di Luhman, dove l’individuo, ancora una volta, si trova relegato in una posizione di secondo piano rispetto al sistema sociale. Infatti, pur ammettendo che “i sistemi sociali sorgono in seguito ai rumori prodotti dai sistemi psichici che tentano di comunicare tra loro” (1990: 356), Luhman non ne conclude “alcun primato ontologico dell’individualità umana” (1990: 414).

Istituzionalismo
Anche per il cosiddetto istituzionalismo, il comportamento dell’individuo non è autonomo, ma è determinato dalle norme sociali e dai ruoli istituzionali. Tra i più autorevoli sostenitori di questa teoria si possono ricordare T.B. Veblen, S.P. Huntington, J.G. March, J.P. Olsen e H. Kelsen. Per quest’ultimo, lo Stato, in quanto persona giuridica, è ben più importante del singolo individuo. “Le volontà delle singole personalità – scrive Kelsen – liberano una misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica” (1995: 53). In questo contesto la libertà individuale scompare: “i cittadini dello Stato sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (KELSEN 1995: 54). “Alla libertà dell’individuo viene a sostituirsi, come esigenza fondamentale, la sovranità popolare o, che è lo stesso, lo Stato autonomo, libero” (KELSEN 1995: 55).

Primi segni di crisi dell’olismo
È solo dopo la Rivoluzione francese che un numero crescente di olisti comincia a prendere coscienza dell’insostenibilità della propria tesi e il massiccio e inossidabile fronte dell’olismo mostra le prime crepe, anche se ciò non indebolisce l’opposizione all’individualismo, che continua ad essere associato all’egoismo e indicato come il “fattore principale di disgregazione sociale” (LAURENT 1986: 46). Ancora oggi, questa etichetta infamante fa presa sulla gente e, ancora oggi, secondo l’opinione prevalente, il termine «individualismo» assume un significato spregevole, mentre, per converso, tutte le accezioni del termine «collettivismo» tendono a conservare connotazioni positive. Insomma, nonostante le crepe, il collettivismo mantiene ben salda la sua posizione di preminenza.

Limiti dell’olismo
Ma, allora, come dobbiamo porci di fronte all’olismo? Possiamo condividere i suoi princìpi? O no? La mia risposta è, senza tanti giri di parole, negativa, per ragioni che anticipo brevemente qui di seguito e che illustrerò meglio nel capitolo seguente. Il principale limite concettuale delle teorie olistiche risiede in questo, che esse non sono autosufficienti e, per reggersi in piedi, hanno bisogno di ricorrere alla psicologia di quegli stessi individui che esse contestano. È incontrovertibile, infatti, che nessuno degli esponenti della tradizione collettivistica, da Saint-Simon a Comte, da Durkheim a Parsons, è riuscito ad evitare di fare ricorso, nei suoi studi, a quei metodi individualistici che pure nega. “Di fatto – osserva Hans – i rappresentanti delle tradizioni collettivistiche sono costretti per lo più a richiamarsi a enunciati di tipo psicologico e a interpretazioni individualistiche” (1993: 600). La presunta oggettività delle leggi sociali non ha retto alle critiche di studiosi, come Habermas e Touraine, i quali hanno osservato che anche lo scienziato che nega valore all’individuo è un individuo egli stesso e, come tale, non può fare a meno di interpretare soggettivamente tutto ciò che descrive. Strano destino quello dei collettivisti: negare l’individualismo in via di principio e, contemporaneamente, ricorrervi per necessità! Questa aporia basta a provare l’inconsistenza delle teorie collettivistiche.
Ma c’è di più: il collettivismo è costretto ad ammettere che lo Stato è antecedente all’individuo e indipendente da esso, ma poi non è in grado di dimostrare questa presunta verità che, a parer nostro, è indimostrabile. In realtà, sembra vero il contrario, e cioè che è l’individuo che precede lo Stato, mentre la società deriva dall’individuo, è un suo prodotto e un suo strumento. Anche per questo il collettivismo è insostenibile, perché trascura e mortifica gli unici soggetti vivi e senzienti, che sono gli individui. Inoltre, il collettivismo è criticabile perché favorisce l’intolleranza e la violenza nei rapporti fra popoli e Stati. Infatti, dalla logica di gruppo prendono origine entità etniche, nazionali o religiose, che, rivendicando, esplicitamente o implicitamente, una propria presunta superiorità nei confronti di tutte le altre entità similari, giungono fino all’esaltazione fanatica di sé e alla negazione dell’altro, alimentando idee (come quelle di unica chiesa, popolo eletto e nazionalismo di Stato), che prevedono un punto di vista privilegiato, al di fuori del quale c’è solo mediocrità e menzogna. “Per questa ragione tutte le dottrine collettivistiche sono foriere di odio irriconciliabile e di guerra fino alla morte” (ANTISERI e AA. 1987: 38).

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