martedì 21 luglio 2009

10. Il pensiero individualista

Nel corso dei secoli, accanto all’olismo, a fatica ha fatto sentire la sua voce anche una minoritaria tradizione individualistica, che affonda le sue radici in tempi relativamente lontani, anche se ha acquistato autorità solo di recente, giungendo a maturazione solo negli ultimi due-tre secoli, dopo un’incubazione stata molto lunga e stentata.

Le due concezioni classiche dell’individualismo
L’individuo come valore in sé si afferma per la prima volta in Grecia (V-IV secolo a.C.) con Socrate, il quale addita nell’anima l’essenza dell’uomo, nella conoscenza la vera virtù, nell’autodominio e nella libertà interiore i principi cardini dell’etica, ma soprattutto con i sofisti, i quali vanno diffondendo un pensiero, che fa di loro i primi veri individualisti della storia. I sofisti riconoscono i diritti democratici e chiamano alla partecipazione politica tutti i cittadini, poiché credono nelle abilità (tecnica, politica e amministrativa) del singolo e pensano che, se opportunamente educato, ogni cittadino possa produrre qualcosa di grande. Essi, tuttavia, rappresentano la parte minoritaria, e comunque perdente, dell’élite intellettuale ellenica e il loro modello culturale viene travolto, insieme alla democrazia, dal ritorno imperioso delle monarchie. In pratica, i greci non riescono a concepire il valore dell’individuo-in-sé e dell’I.smo universale. Solo al cittadino, infatti, essi riconoscono la pienezza dei diritti democratici, ma il cittadino non brilla di luce propria e rimane, in qualche modo, subordinato alla polis: senza polis non c’è cittadino e nemmeno diritti democratici. Nello stesso periodo, anche in Palestina si afferma l’individuo, ma in modo profondamente diverso. In questo caso ogni essere umano acquista valore in quanto creato da Dio a propria immagine e la sua principale virtù viene indicata nella sottomissione alla volontà del Creatore e alla sua legge, ossia nell’obbedienza ai suoi ministri.
Da queste, che possiamo chiamare le due concezioni classiche dell’individualismo, emergono due diverse figure di individuo. Nel caso dei greci, l’elevazione dell’uomo è raffigurata nel mito di Prometeo, il titano che ruba il fuoco (simbolo di conoscenza e competenza) agli dèi per darlo agli uomini. Anche Adamo ed Eva, mangiando il frutto proibito, acquisiscono la conoscenza divina. La differenza è che i greci esultano davanti a quella che considerano una conquista dell’uomo, mentre gli ebrei la bollano come peccato di superbia. Se i sofisti possono essere considerati precursori del pensiero illuminista e giusnaturalista, da cui prenderanno origine le costituzioni moderne e le proclamazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli ebrei, invece, preparano il terreno al cristianesimo e allo spiritualismo. Attribuendogli un’anima personale, il cristianesimo eleva l’individuo ad un livello divino e ne fa un soggetto unico, prezioso e sovrano, com’è Dio, ma solo in teoria. In pratica, la chiesa che si va ad affermare finisce per coartare l’individualità sotto una pesante coltre dogmatica e sotto i supremi principi dell’obbedienza gerarchica e dell’appartenenza. L’individuo è persona solo in quanto membro della chiesa e solo a livello teorico.

Antichità e medioevo
In generale, il riconoscimento del diritto di ciascuno di tracciare il proprio progetto di vita, in piena libertà e anche in opposizione al mondo esterno, quello che abbiamo chiamato Io in senso pieno, rimane sostanzialmente estraneo a tutto il pensiero antico-medievale, anche se ciò non impedisce a personaggi come Seneca, Marco Aurelio e soprattutto Sant’Agostino di impegnarsi in percorsi introspettivi, che sono abbastanza insoliti per il loro tempo. Un altro esempio di affermazione dell’Io in età medievale ci viene offerto da Pietro Abelardo (1079-1142), il quale, venendosi a trovare in conflitto con l’opinione pubblica prevalente, continua a sostenere le sue ragioni e, pur consapevole di uscire fuori dagli schemi consueti, rimane fermo sulle proprie idee e rivendica la propria autonomia di pensiero. Ma anche Abelardo costituisce un’eccezione.
Il soggetto medievale tende, di norma, a confrontarsi con modelli precostituiti di personalità religiose (santi) o laiche (filosofi) e a nascondersi dietro tali modelli, che rimangono iscritti entro un ordine generale e superiore. Dietro la figura di ogni individuo si staglia sullo sfondo il supremo giudizio della collettività, l’unico abilitato a discernere il bene dal male. “All’individualità non si dà valore, né la si approva, la si teme e non solo negli altri; l’uomo si guarda dall’essere se stesso. La manifestazione dell’originalità, della singolarità aveva l’aroma dell’eresia. L’uomo soffriva sapendo di non essere come tutti gli altri” (GUREVIČ 1996: 228).
L’Io antico-medievale esiste e può esistere soltanto nell’ambito di un gruppo (Stato, città, famiglia, parrocchia, feudo, signoria, corporazione, gilda) o di una ben determinata sfera culturale. “Re, papi e principi per gli annalisti e gli storici erano interessanti non di per sé, ma piuttosto come rappresentanti di un processo più profondo di rivelazione divina […]. Ancor meno venivano considerati individualità i santi, gli eremiti, i mistici, al contrario: la loro gloria consisteva nella rinuncia al proprio Io, nella dissoluzione della personalità in Dio” (GUREVIČ 1996: 228-9). E non poteva essere che così. Infatti, “Il sistema di valori, fondato dal cristianesimo medievale, non indirizzava la personalità a proclamare e affermare la propria irripetibile individualità” (GUREVIČ 1996: 286).

Rinascimento ed età moderna
Bisogna aspettare il XIV secolo per assistere alla nascita dell’I.smo in senso moderno, e ciò avviene in quel Guglielmo di Ockham, che, fondando la conoscenza umana sull’esperienza empirica ed escludendo la teologia dal novero delle scienze, apre le porte al “primato assoluto dell’individuo” e anticipa il Rinascimento, l’epoca d’oro delle grandi individualità. Dopo il Rinascimento, il filo dell’individualismo si svolge in modo sempre più fluido e quasi senza interruzione. Tra le figure più rappresentative, ricordiamo Montaigne (XVI secolo), che, oltre a manifestare la consapevolezza dell’unicità e irripetibilità della persona, rivendica il diritto all’autonomia e alla libertà di pensiero e rifiuta il principio d’appartenenza. Seguono il timido I.smo di Cartesio (XVII secolo), che fonda la sua teoria della conoscenza sul soggetto pensante e dubitante, e il debole I.smo sotteso nella teoria del “contratto” di Hobbes, dove si agita “l’idea che non l’individuo è il prodotto della società ma è la società il prodotto dell’individuo” (BOBBIO 1999: 377).
Una più decisa affermazione dell’Is.mo è contenuta nel pensiero liberale di Locke, Humboldt e Constant, i quali indicano come vero protagonista della civiltà e del progresso non lo Stato, bensì l’individuo e auspicano che questi venga protetto da ogni forma di sopraffazione e tutelato nei suoi diritti, primo fra tutti quello della libertà. Per i liberali, è bene tutto ciò che mira a realizzare, pienamente, le facoltà proprie dell’uomo, che è fatto ad immagine di Dio e non ha bisogno di figure paterne o tutori. “E che! I sudditi dovrebbero sopportare tutto pazientemente, con il pretesto che i sovrani derivano immediatamente da Dio la loro autorità e che Dio solo ha diritto di chieder loro conto della loro condotta!” (CHEVALLIER 1968: 121). Questa dottrina del diritto divino è considerata da Locke un vero e proprio veleno della politica, al quale occorre urgentemente trovare un antidoto. A differenza di Hobbes, Locke ritiene che, nello stato di natura, i singoli uomini non stanno poi così male, anche se vedono le loro libertà e le loro proprietà mal garantite. Se preferiscono lo Stato è per essere meglio tutelati nei loro diritti. Dandosi un governo, tuttavia, essi non rinunciano alla propria sovranità originaria. Il potere politico si basa sul consenso: ecco l’antidoto.
Secondo Rousseau, lo scopo essenziale dell’educazione è quello di formare uomini che, pur essendo perfettamente inseriti nella società, conservino un’autonomia morale rispetto ad essa. Il filosofo ginevrino, tuttavia, non riesce a spingere il suo pensiero in modo coerente e fino alle estreme conseguenze, finendo con l’arenarsi in concetti generici e fuorvianti, che annacquano la sua carica individualista. Per Rousseau, infatti, la libertà dell’individuo consiste nel piegarsi alla volontà generale, la quale, però, non corrisponde alla volontà di tutti o della maggioranza, bensì ad un generico e non ben definito interesse generale, che si oppone agli interessi particolari delle persone. Il popolo di Rousseau è sovrano solo in quanto portatore della volontà generale: non ha potere legislativo, né libertà di decidere autonomamente, e rimane schiacciato sotto il peso di questa volontà impersonale, di questa Legge fatta da nessuno, di questo principio onnipotente ma astratto. A Rousseau non interessa che il popolo approvi o respinga una legge, gli interessa soltanto che quella legge sia conforme o meno alla Volontà generale. Così, pur essendo mosso dall’intento di liberare l’uomo dal giogo di leggi fatte da altri uomini, Rousseau finisce per mortificare la libertà individuale e tracciare il modello di una democrazia apparente. In un certo senso, egli realizza un sistema assolutistico non meno rigido di quello sostenuto da Bodin, Hobbes e Bossuet. Per il filosofo ginevrino, infatti, “la volontà generale è sovrana e in quanto tale trascende la volontà individuale dei soggetti nella stessa misura in cui il governante di Hobbes era posto al di sopra dei governati” (DUMONT 1993: 119).
Il pensiero di Montesquieu non è lontano da quello di Rousseau, la principale differenza consistendo in questo, che alla Volontà generale Montesquieu sostituisce le Leggi, e lo spirito da cui esse emanano. Il legislatore è, in teoria, il popolo intero, il quale, però, non potendo svolgere, direttamente, questa funzione, deve delegarla alla nobiltà o ad un corpo di rappresentanti, così come deve delegare al re il potere esecutivo, cioè il compito di applicare le Leggi stesse. Ciò che distingue i modelli di Rousseau e Montesquieu rispetto a quello di Hobbes è che essi non sono fondati sul principio autoritario, ma sulla libertà e sulla giustizia, anche se poi, di fatto, si risolvono anch’essi in una qualche forma di autoritarismo.

Età contemporanea
L’I.smo raggiunge la sua massima espressione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proclamata dall’Assemblea Costituente francese nel 1789, che, nell’art. 1, afferma: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”. Da questo momento, il fronte dell’I.smo, pur restando minoritario, si rafforza e dalla sua parte si schierano pensatori come Hume, Mandeville, Bentham e, soprattutto, Kant, che è l’autore di un’importante svolta. Fino a Kant, gli studiosi hanno tentato di spiegare la conoscenza supponendo che fosse il soggetto (l’individuo) a dover ruotare intorno all’oggetto (la realtà esterna). Kant inverte i ruoli e stabilisce che è l’oggetto a dovere ruotare attorno al soggetto, realizzando, in tal modo, quella che lui stesso chiama la «sua» rivoluzione copernicana. In pratica, Kant afferma che non è l’individuo che, conoscendo, scopre le leggi della natura, ma, viceversa, è la natura che si adatta, allorché viene conosciuta, alle leggi dell’individuo conoscente. Il cambio di prospettiva non può essere più radicale.
Dopo Kant il pensiero individualista si estende e si consolida, conquistando fure del calibro di Fichte, Stirner, Kierkegaard, Spencer e Mills. Fichte indica nell’Io il principio originario, autoaffermantesi, il principio unico e supremo che fonda l’intera realtà e conoscenza, e da cui tutto deriva, anche Dio: tutto ciò che è esterno all’Io (realtà, natura, o noumeno come lo chiamava Kant), è Non-Io. Per Stirner, l’individuo è l’unica realtà e l’unico valore: tutto il resto è affatto secondario. Se Hegel aveva affermato che quel che conta non è il singolo, bensì l’umanità, Kierkegaard, invece, sostiene che il singolo conta più della specie. Anche per Spencer, è la società che esiste per gli individui e non viceversa. Dal canto suo, J.S. Mill sostiene che la funzione primaria dello Stato dev’essere quella di promuovere i singoli cittadini: “uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi” (1997b: 133). Il primato dell’individuo sulla società è magistralmente enfatizzato dal pensatore inglese (1997b: 20): “Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità”.
In virtù di questa proclamata sovranità individuale, il solo scopo per cui un governo può legittimamente esercitare un potere su un qualsiasi cittadino, contro la sua volontà, “è per evitare danno agli altri” (MILL 1997b: 12). Ciò non significa negazione di ogni gerarchia sociale, né che tutti gli individui debbano essere assolutamente uguali. Mill, infatti, diffida dell’egualitarismo democratico. Al centro della sua attenzione sta l’individuo, nella sua diversità. È bene –afferma– concedere agli individui uguaglianza di opportunità e poi lasciare che si sviluppi fra loro una libera concorrenza ed emergano i migliori: i cittadini verranno ordinati non solo secondo il censo, ma anche secondo le competenze e la cultura, dando la preferenza a queste ultime. La società – prosegue lo studioso – deve essere governata da rappresentanti eletti a suffragio universale, con poche eccezioni (gli analfabeti, gli assistiti dal comune), e i voti dei cittadini devono avere un peso diverso in proporzione al loro valore. Secondo Mill, gli Stati peggiori sono quelli a governo dispotico o paternalistico, perché trattano i cittadini come bambini e ostacolano la loro crescita. Lo Stato milliano deve intervenire il meno possibile nella vita dei cittadini e, quando interviene, la sua azione può essere giustificata solo non nella misura in cui essa tende a difendere gli stessi diritti individuali.

L’homo oeconomicus
La centralità dell’individuo risalta in modo evidente nell’ambito dell’economia classica, la quale afferma che l’uomo, in quanto essere razionale, è in grado di scegliere, tra le alternative a sua disposizione, quella che comporta per lui la massima utilità, ovverosia, “postula un individuo che sceglie i mezzi più appropriati per massimizzare l’utilità soggettiva” (DI NUOSCIO 1996: 87). Alla base del pensiero economico c’è l’idea che ogni singola azione di ogni singolo individuo umano è sempre sostenuta da una logica razionale tornacontistica, alla luce della quale può essere compresa e spiegata ai propri simili. Il comportamento dell’homo oeconomicus è ben studiato dalla teoria dei giochi, o teoria delle decisioni, che ci consente di osservare gli attori mentre cercano, in ogni particolare situazione, di ottenere il massimo vantaggio col minimo rischio. “Il famoso e tanto discusso uomo economico è un individuo avido, sempre alla ricerca di migliorare la sua posizione nei confronti della ricchezza intesa in senso generale (utilità)” (SCHNEIDER 1985: 48). È un opportunista, uno che, partendo dalle risorse e dalle informazioni a sua disposizione in un determinato momento, tende a massimizzare il proprio vantaggio. Quando Adam Smith afferma che ogni uomo è il giudice migliore del suo proprio interesse e che il consumatore è in grado di scegliere, tra le alternative che gli si offrono, quella a lui più conveniente, in realtà sta dichiarando la sua fiducia nelle capacità di discernimento dell’individuo, almeno sul piano economico, ma (perché no?) anche su quello morale. Il grande merito dell’economia, che è quello di aver saputo evidenziare la centralità dell’individuo e il suo indiscusso primato su un fatiscente collettivo, è ben riassunto da Mises (1990: 139): “Ogni azione razionale è economica. Ogni attività economica è un’azione razionale. Ogni azione razionale è in primo luogo un’azione individuale. Solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce”.

L’anarchismo
Il campo, dove è possibile trovare la più appassionata difesa dell’individuo e dei suoi diritti, è certamente rappresentato dall’anarchismo. Secondo Godwin, lo Stato non è un complesso organico, ma semplicemente “un aggregato di individui” (1997: 102) e l’obiettivo della politica è quello di educare i cittadini alla felicità e all’indipendenza. “Senza indipendenza gli uomini non possono essere né saggi né utili né felici. Di conseguenza la condizione più desiderabile per l’umanità è quella in cui viene mantenuta la sicurezza generale, con la minor violazione possibile dell’indipendenza individuale” (1997: 64-5). Lo Stato dovrebbe essere formato da piccole comunità organizzate secondo i princìpi della democrazia partecipativa e in modo federale, ma al consiglio federale si deve ricorrere il meno possibile e solo in casi eccezionali. La società ideale è fatta di comunità che si autogovernano e non hanno bisogno di uno Stato centrale forte, il quale si rende necessario solo quando, e nella misura in cui, gli uomini non sono in grado di autogovernarsi. Tuttavia, finché ci sarà un governo forte gli individui non saranno autonomi e indipendenti nel giudizio, e finché gli individui non saranno autonomi ci sarà ancora necessità di uno Stato. “I veri sostenitori del governo sono i deboli e i disinformati, non i saggi. Le basi del governo si sgretoleranno quindi di pari passo con il regredire della debolezza e dell’ignoranza. Si tratta tuttavia di un evento che non deve essere considerato con allarmismo. Uno sconvolgimento di questo genere costituirebbe la vera eutanasia del governo” (GODWIN 1997: 104-5). Ed è proprio questo l’obiettivo ultimo dell’anarchismo: la fine dello Stato e l’esaltazione dell’individuo.

Oggi
Il momento topico nella storia dell’I.smo si registra alla fine della seconda guerra mondiale, con la caduta dei regimi dittatoriali e l’affermazione, a livello planetario, della democrazia rappresentativa. Da questo momento il pensiero individualista si arricchisce di importanti contributi teorici e acquista peso e autorevolezza. Soffermarsi sul pensiero di tutti gli studiosi contemporanei che hanno preso posizione a favore dell’I.smo richiederebbe un libro dedicato. In questa sede ci limitiamo a menzionare i nomi di Heidegger, Mises, Lasswell, Hayek, Garfinkel, Popper, Rothbard, Friedman, Boudon, Nozick e Feyerabend: un esercito! Seppur in modo diverso, tutti costoro sostengono che il comportamento umano può essere compreso solo partendo dall’individuo e riconducono i fenomeni sociali a cause individuali.
Oggi non c’è Repubblica democratica che non declami, anche se talvolta solo a parole, i princìpi dell’individualismo, a tal punto che questi rappresentano “il carattere specifico” della modernità (HERVIEU-LÉGER 1993: 704). Ai giorni nostri è diffusa la ferma convinzione che l’essere umano è in grado di autogestirsi e dare un senso compiuto alla propria vita, e si è inclini a riconosere questa condizione come un diritto universale irrinunciabile. Giddens, per esempio, non esita ad indicare nell’autonomia e nello sviluppo individuale “l’obiettivo principale” (1999: 125) delle nostre democrazie. Salvador Giner (1998: 98) lo segue a ruota: “Uno dei compiti più seri che oggi dobbiamo affrontare –afferma Salvador Giner– è quello di creare buoni cittadini, ossia soggetti attivi e responsabili, in luogo di gente indifferente alla causa comune; cittadini che non si scoraggino di fronte alle difficoltà della vita politica democratica e disposti a difendere con fermezza i suoi lati positivi e a riformare quelli negativi”. E lo stesso fa Murray Bookchin (1993: 53), il quale, nel descrivere il suo modello municipalista, afferma la propria fiducia nel cittadino con queste parole, che fanno venire in mente i sofisti: “Ogni cittadino è considerato competente in materia di affari pubblici e addirittura viene incoraggiato ad occuparsene. Viene perciò fornito ogni mezzo atto a favorire una piena partecipazione intesa come processo educativo ed etico che trasforma la latente capacità del cittadino in una realtà effettiva”.
Quanto affermano gli studiosi trova fedele riscontro nella realtà, dove è viva l’autocoscienza di sé delle persone, nonostante la spinta massificante degli Stati e della globalizzazione. Secondo Anthony Elliot e Charles Lemert, “nella nostra società moderna l’etica dell’autoesaltazione individuale regna sovrana” (2007: XI).

Cosa significa «individualismo»?
È arrivato il momento di chiederci che cosa sia, in realtà, l’I.smo e che cosa significa essere individualisti. “L’individualismo poggia innanzi tutto sulla convinzione che l’umanità non è composta di insiemi sociali (nazioni, classi, ...) ma di individui, di esseri viventi, indivisibili e irriducibili gli uni agli altri, singoli nel sentire, agire e pensare” (LAURENT 1994: 16). Esso sostiene che lo Stato, di per sé, è solo un nome: non ha bocca per parlare, né gambe per camminare, né mani per manipolare, né cervello per pensare. Tutto ciò che viene pensato e fatto ha per protagonista un essere individuale e personale. Il gruppo e l’istituzione è il paravento dietro il quale si celano soggetti individuali, che spesso agiscono dietro le quinte in funzione dei propri scopi. In altri termini, l’individuo è l’unico essere capace di sviluppare un pensiero autonomo, di agire per uno scopo, di creare gruppi e Stati, perfino di distruggere ciò che ha creato, mutare una prassi consolidata o cambiare una società.
Ogni idea e ogni azione cominciano sempre da uno o da pochi individui, mai da un gruppo indistinto e indeterminato, ed è per questo che l’individuo costituisce la materia prima, la struttura e la sostanza, laddove invece il gruppo (qualsiasi gruppo) è solo un artefatto culturale. L’opinione secondo la quale i gruppi, i partiti, le nazioni, le società, sono “gli oggetti empirici che le scienze sociali studiano così come la biologia studia gli animali e le piante [...] deve essere respinta per la sua ingenuità” (POPPER 1972: 579).
Secondo l’I.smo, l’individuo rappresenta “il valore più elevato” (LAURENT 1986: 11) e conviene partire da lui per comprendere il sociale, e non viceversa. L’I.smo non nega l’influenza del fattore culturale e sociale sull’individuo, ma afferma che questa influenza non è assoluta, perché il soggetto non è sempre passivo e può non piegarsi all’opinione comune e allo spirito delle leggi. L’I.smo attribuisce a ciascuno un valore in quanto individuo, che è incondizionato e indipendente da ogni criterio di appartenenza e da ogni altra considerazione di ordine sociale o culturale. Ogni individuo è un assoluto, un’entità sovrana, un progetto singolare, un mondo a sé stante e la sua dimensione sociale non elimina il suo valore ontologico. Ogni individualità è uguale ad un’altra, ha la stessa dignità, lo stesso valore. Questo principio è ben espresso dall’immagine religiosa della creaturalità: essendo figli di Dio siamo tutti uguali.
L’I.smo parte dal postulato che, in quanto unici, liberi e portatori di bisogni, gli individui costituiscono la parte attiva, l’elemento fondante, l’anima di ogni gruppo o società. Non esiste, pertanto, se non come metafora, una “ragion di Stato” e nemmeno un’”azione di Stato”, ma solo interessi e azioni di individui. Non è lo Stato che pronuncia la condanna a morte in un processo e la porta a compimento: è un giudice che emette la sentenza ed è il boia che la esegue. Lo Stato non pensa: non ha scopi né volontà, non ha bisogni né autocoscienza, non ha bisogni né emozioni. Ne consegue che la società deve orbitare intorno ai propri membri individuali, e non il contrario. “Il valore supremo, in tutte le costruzioni sociali ed economiche, è l’uomo; scopo della società è di offrire le condizioni adatte al pieno sviluppo delle potenzialità umane” (FROMM 1996: 95). Lo Stato, in definitiva, deve mettersi al servizio dei singoli progetti di vita individuali, anziché erigere barriere culturali e sviluppare logiche di gruppo tanto care all’olismo, la cui conseguenza ultima è l’abominevole sacrificio delle ragioni individuali.

Il caso di mio nonno
Mio nonno Giuseppe era un minuscolo contadino semianalfabeta, che lavorava il suo piccolo podere in una sperduta landa in provincia di Catania. Parlava solo il dialetto natio e, come gli altri abitanti della contrada, si allontanava dalla sua terra raramente ed entro un raggio di poche decine di Km, sempre per ragioni ben precise, come la partecipazione ad una fiera, una malattia, un matrimonio e poco altro. Le mete abituali erano i paesi vicini e, solo eccezionalmente, si affrontava col carretto l’impegnativo viaggio per Catania, che distava circa 40 Km. Giuseppe era sposato senza prole e aveva trent’anni quando, nel 1914 veniva reclutato e inviato al fronte dell’Isonzo, per combattere contro gli austriaci, allo scopo di liberare le città di Trento e Trieste e annetterle all’Italia. Ora, con quale spirito può lasciare la sua terra e i suoi affetti un giovane sposo siciliano, che non conosce né l’Italia né l’Austria, né Trento né Trieste, e non parla nemmeno la lingua italiana, ve lo lascio immaginare! Giuseppe si sarebbe certamente sottratto a quella chiamata se ne avesse avuto la possibilità, ma dovette piegarsi alla forza bruta dello Stato, che lo strappava dal suo ambiente e lo mandava a rischiare la vita in un terra sconosciuta e per una causa a lui estranea. Mio nonno, per fortuna, riuscì a salvare la pelle, ma a molti altri giovani andò peggio e il loro progetto di vita fu ignobilmente stroncato per sempre dalle fameliche brame di qualcuno che si faceva chiamare “Stato”.

La sociologia dell’azione
Il primato dell’individuo emerge dalla sociologia dell’azione, secondo la quale “si possono imputare gli stati mentali solo ad individui, ed è solo per metafora che concetti quali volontà, coscienza o psicologia vengono applicati a «soggetti» non individuali” (DI NUOSCIO 1996: 85). Lo Stato non pensa, né agisce. Solo l’individuo pensa e agisce, e “ogni fenomeno sociale è il risultato della combinazione di azioni, credenze o atteggiamenti individuali” (BOUDON 1994: 625). Ne consegue che i fenomeni sociali vanno studiati partendo dalle azioni dei singoli individui e che bisogna “diffidare di chi sostiene una concezione antindividualistica della società” (BOBBIO 1992: 117). Inoltre la sociologia dell’azione “parte dal postulato che il comportamento di un attore sociale sia sempre comprensibile” (BOUDON 1991: 463) e va a ricercare le “buone ragioni” che lo hanno spinto in quella direzione. Secondo Boudon, “il ricercatore deve fare come il poliziotto, scoprire le tracce lasciate dai singoli e ricostruire la loro strategia di azione partendo delle loro ragioni” (DI NUOSCIO 1996: 59). Con ciò non si pretende, certo, di affermare che l’uomo agisce sempre in maniera rigorosamente razionale. Si sa, infatti, che la razionalità umana non è né perfetta, né assoluta, e che occorre tener conto dei condizionamenti culturali, emotivi e situazionali cui ciascun soggetto è sottoposto. S’intende invece affermare che l’attore sociale è colui il quale, trovandosi di fronte a un certo numero di alternative ritenute possibili, sceglie quella che gli sembra più soddisfacente in quel particolare momento.

La razionalità soggettiva
Secondo il principio di razionalità soggettiva, “gli individui agiscono sempre in maniera adeguata alla situazione in cui si trovano” (DI NUOSCIO 1996: 139). Per Popper e Mises, anche l’azione di un folle può essere considerata razionale, in quanto coerente e adeguata al punto di vista del soggetto. All’origine di ogni azione c’è sempre, dunque, una certa razionalità, ossia un complesso di “ragioni”, che spingono un individuo a comportarsi in un modo anziché in un altro, anche se non sempre si riescono a cogliere in tutte le loro sfumature. Ogni individuo ha le sue buone ragioni per comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, ha la sua logica e obbedisce a quella, e, poiché non c’è un modo per dire con certezza che la logica di uno è superiore a quella di un altro, ne consegue che tutte le logiche hanno un proprio valore intrinseco. Ogni logica è sovrana, come sovrano è l’individuo che la esprime. Mi piace chiudere questa esposizione con le parole di Raymond Boudon (1991: 462), che, in modo semplice ed esemplare, ci spiegano che cosa dobbiamo intendere per I.smo: “In senso morale è individualista chi vede nell’individuo la fonte suprema dei valori etici; in senso sociologico una società è individualistica quando assegna in generale all’individuo un valore preminente; in senso metodologico, infine, la nozione di individualismo implica solamente che, per spiegare un fenomeno sociale, si debba risalire alle sue cause individuali”.

Il futuro dell’individualismo
Quale sarà il futuro dell’I.smo? Non lo sappiamo. Al momento attuale, non è possibile prevedere se esso riuscirà ad affermarsi, né in che modo e in che misura esso verrà applicato concretamente nella realtà sociale. Quel che sappiamo è che, oggi, per la prima volta nella storia, l’I.smo rappresenta un’alternativa credibile all’olismo. Oggi, all’interno della teoria individualistica, albergano due principali linee di pensiero: l’una moderata, l’altra radicale. Gli individualisti moderati (che sono la maggior parte) vogliono che i poteri dello Stato siano ridotti al minimo e le libertà degli individui ampliate al massimo; gli individualisti estremi (Stirner, Nock) vedono invece nello Stato un nemico da abbattere e sostengono l’anarchia. In ogni caso, oggi l’I.smo tende ad affermarsi solo a livello di nicchia, fra l’élite intellettuale, mentre l’anti-I.smo domina a livello di massa, dove gli uomini “si fidano più degli usi e della tradizione dei padri, che non della propria ragione” (VAUVANERGUES 1989: 317) e continua a prevalere la «morale di gregge», come la chiamava Nietzsche. La ragione è semplice: pensare con la propria testa costa fatica, esprimere le proprie potenzialità comporta un impegno assai gravoso, che pochi sono disposti a sostenere, e così la maggior parte delle persone trova più comodo mettersi al seguito di qualcun altro e lasciarsi guidare.

Conclusione: Individualismo come Democrazia
Possiamo concludere questo rapido excursus storico affermando che oggi l’I.smo è una realtà consolidata ed ha le carte in regola per insidiare il primato dell’olismo, anche se i tempi per un auspicabile sorpasso si prevedono ancora lunghi e irti di difficoltà. Alla fine, vogliamo sperare, l’I.smo prevarrà e, se ciò accadrà, ci aspettiamo di veder realizzata una qualche forma di democrazia evoluta, che chiamiamo DD. L’I.smo, infatti, è da intendersi come strettamente connesso con la vera democrazia, nel senso che senza il primo non può esserci la seconda e, dove c’è il primo, dev’essersi necessariamente la seconda. “Solo gli individui nella pienezza dei loro diritti civili e politici sono i protagonisti del processo democratico, da essi soli promana il consenso che è la fonte di legittimità del sistema” (GRECO 2000: 243). “Eliminate una concezione individualistica della società. Non riuscirete più a giustificare la democrazia come forma di governo. Quale migliore definizione della democrazia se non quella secondo cui in essa gli individui, tutti gli individui, hanno una parte della sovranità?” (BOBBIO 1992: 116). In ultima analisi, per l’I.smo, la società ideale è quella che riesce a tutelare i diversi progetti individuali, chiamateli pure “egoismi”, vigilando che non vi siano prevaricazione di uno sull’altro.

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