martedì 21 luglio 2009

05. L'individuo umano: verso una definizione.

L’individuo rappresenta il punto di partenza della storia della vita, essendo inconcepibile una forma di vita che non inizi con un essere individuale. L’individualità accomuna tutti gli esseri viventi (vegetali o animali), dagli organismi più semplici, come un microbo, un’ameba, un protozoo, un verme, una zanzara, una mosca, che possono vivere in forma isolata, a quelli più complessi, come un cane, un cavallo, uno scimpanzè e un uomo, che sono caratterizzati da una spiccata socialità, a tal punto che, senza l’opportunità di una vita sociale e senza un apporto educativo, il cane non è un vero cane, il cavallo non è un vero cavallo, lo scimpanzè non è un vero scimpanzè e, a fortiori, l’uomo non è un vero uomo (ricordiamo Kamala, la bambina allevata dai lupi, che aveva perso irrimediabilmente la sua piena “umanità” ed era diventata quasi esclusivamente una lupa). Ne deduciamo che tutti gli esseri viventi sono individui, ma non tutti lo sono allo stesso modo: alcuni sono individui semplici, altri, fra cui gli esseri umani, sono individui sociali. In questo capitolo ci soffermeremo a parlare solo di individui umani «medio», intendendo per tali quelli che non siano affetti da gravi malformazioni o patologie e che non siano penalizzati (come Kamala) o avvantaggiati (come il figlio primogenito di un re) da fattori esterni, in modo determinante. Il nostro individuo «normale» è un soggetto sano, che vive in condizioni psicosociali ordinarie e riceve un condizionamento altrettanto ordinario di eventi fortunati o avversi.

L’individuo e l’inizio della storia
Secondo la Bibbia, Dio crea Adamo, il primo essere umano, allo stato individuale e lo destina a vivere in splendida e felice solitudine in un mondo idilliaco e quasi perfetto. Un giorno, racconta il testo sacro, accortosi che quell’individuo è triste e infelice e quasi a voler rimediare ad un errore, Dio gli estrae una costola e con essa crea Eva, la sua compagna. Da quel momento, Adamo ed Eva diventano animali sociali, anche se non perdono la propria individualità. In quanto individui, essi sono soggetti unici, liberi e, soprattutto, portatori di bisogni personali. Hanno bisogno di un territorio (l’Eden), di aria, acqua e cibo (se mangiano la mela proibita significa che mangiano), anche se i loro bisogni sono soddisfatti senza limiti e senza sforzi da una natura eccezionalmente generosa e provvida. Non essendoci pericoli di sorta, essi possono prosperare e moltiplicarsi in pace: il loro benessere e la loro felicità è assicurata dal Creatore. Dopo il peccato inizia la straordinaria avventura dell’umanità, che sarà caratterizzata dalla continua ricerca delle soluzioni migliori possibili per soddisfare i bisogni dell’individuo, a costo di affanni, sacrifici e sudore della fronte. Se l’uomo non fosse mosso da bisogni sonnecchierebbe tutto il giorno, non perseguirebbe scopi e non produrrebbe cultura.
Sia pur con diverse parole, anche la scienza afferma che la natura ha creato la vita, dandogli la forma di un individuo, il quale è dotato dei mezzi necessari a preservarsi e riprodursi (cfr. cap. 2). Tutto qui. Ciò significa che, tanto se guardiamo con gli occhi del religioso che con quelli del laico, non possiamo che affermare la stessa cosa e cioè che la storia umana inizia con un individuo e i suoi bisogni. Insomma, anche per la scienza, come già per la religione, l’individuo umano è il punto d’inizio della nostra storia.

L’individuo: un tentativo di definizione
Ma che cos’è l’individuo umano? È difficile definirlo senza cadere nell’ovvietà e nella tautologia. I termini “essere umano”, “soggetto pensante”, “persona”, “uomo”, “cittadino”, con le loro sfumature di significato, non risolvono la nostra difficoltà perché, a loro volta, rimandano alla domanda: che cosa sono l’essere umano, il soggetto pensante, la persona, l’uomo, il cittadino? Né costituisce un passo avanti la concezione religiosa dell’individuo. Se diciamo che egli è una creatura di Dio, potremmo comunque chiederci: che cos’è una creatura umana? E se ci appelliamo all’esistenza dell’anima il discorso ci immetterà in una via lunga e senza uscita. Ammetteremo che l’anima è una sostanza simile a Dio, ma non saremo in grado di definirla, finché non avremo una conoscenza chiara della sostanza divina. Che cos’è dunque l’individuo?
Il termine «individuo» richiama alla mente le idee di «piccolo», «singolare», «unico», «solitario», «debole», e si contrappone a ciò che è estremamente grande, ossia il cosmo, estremamente numeroso, ossia la specie, ed estremamente potente, ossia la natura. Nello stesso tempo, l’individuo si associa all’idea di «vita» e «vitale» e, per contrapposizione, richiama alla mente ciò che è privo di vita, ossia la materia inerte. L’individuo è, dunque, un soggetto vivente, singolare e fragile, dinamico e attivo, cosciente e intelligente, bisognoso e mosso da una volontà verso scopi. Tutto ciò contribuisce a descrivere l’individuo, ma non è sufficiente a spiegarlo e comprenderlo. Saremo in grado di cogliere la sostanza dell’individuo solo quando avremo compreso che cos’è la vita, ma, come abbiamo detto, la scienza non sa andare oltre l’analisi descrittiva e il DNA (cfr. cap. 4). Ebbene, cosa c’è scritto nel DNA dell’individuo umano? Nel DNA c’è scritto un codice, espresso in linguaggio chimico, fatto di atomi, molecole, catene di molecole, che erano già presenti agli inizi dei tempi e che, attraverso un lungo processo evolutivo, sono diventati geni e complessi di geni, ossia il fondamento della vita. Il DNA dimostra che “l’uomo è un organismo biologico” (NASH 1975: 492). In quanto tale egli è sottoposto alle forze dell’evoluzione naturale, che tendono a selezionare geni sempre più funzionali alla conservazione della vita e alla riproduzione.

L’individuo è un progetto scritto nel DNA
Nel DNA c’è scritto quello che l’individuo è: gli attributi della sua persona, della sua complessione, del suo carattere, della sua intelligenza, delle sue attitudini e delle sue idiosincrasie. C’è scritta la sua somiglianza con gli altri mammiferi, coi quali condivide il il bagaglio dei bisogni, la sua memoria, la sua autocoscienza, la sua necessità di cure parentali e apprendimento, la sua capacità di riprodursi e il suo destino di morte. C’è scritta anche la sua specificità: il suo bipedismo, il suo grande cervello, la sua spiccata socialità, la sua elevata abilità nell’uso delle mani, la sua capacità di costruire utensili, esprimersi con un linguaggio evoluto, creare cultura altamente simbolica, riflettere sul mondo e su se stesso, ricordare il proprio passato e interpretarlo. A differenza delle altre specie, l’uomo civile sa esprimersi con un linguaggio alfabetico (ma anche artistico e musicale), sa analizzare criticamente i dati esperenziali, sa ricorrere al mito e alla scienza per spiegare i fenomeni ambientali e se stesso, sa elaborare teorie filosofiche e religiose, assumersi responsabilità personali e sociali, lasciarsi plasmare dalla cultura che egli stesso ha prodotto nel corso di molte generazioni, creare società molto vaste e complesse e ordinarle sulla base di codici legislativi ed etici, scrivere la propria storia e raccontarla. E tutto ciò è scritto nel suo DNA. Sotto questo aspetto, possiamo affermare che l’individuo è un progetto di vita scritto in un codice genetico chiamato DNA.

L’individuo è un animale egoista
Il DNA è una sorta di lavagna genetica a due facce, che chiamiamo A e B. Sulla prima è riportato ciò che al soggetto è stato fornito in dotazione dalla natura (le fattezze del corpo, la sensibilità dell’apparato sensoriale ed emotivo, le facoltà mentali, la resistenza alla fatica e alle malattie, la longevità, il senso di orientamento, la scioltezza del linguaggio, la propensione all’introspezione e alla riflessione, le abilità manuali e tecniche) oltre a un esiguo numero di comportamenti istintuali e di tendenze innate, come le pulsioni sessuali e i legami parentali. In altri termini, nella faccia A della lavagna genetica c’è tracciato il progetto del nostro Io biologico, dove è previsto che saremo allevati ed educati all’interno di una struttura familiare, che impareremo a camminare su due gambe e a parlare, che svilupperemo un’autocoscienza e vivremo in società, e tutto ciò che attiene alla nostra sopravvivenza personale. L’individuo biologico, infatti, vive per vivere (stare in salute, procurarsi piaceri ed emozioni gradevoli, rifuggire le sofferenze e i dolori) e riprodursi, e non ha altri scopi all’infuori di questi. L’obiettivo ultimo di questo progetto naturale è quello di creare “uno spazio vitale (nutritivo e riproduttivo) intorno all’individuo; spazio in cui l’individuo possa muoversi, agire, vegetare e riprodursi senza l’intralcio dei propri cospecifici” (CHIARELLI 1983: 1). Ecco perché ogni individuo manifesta uno stato conflittuale, che è da ritenere fisiologico, nei confronti di chiunque altro, foss’anche la madre o il fratello. L’individuo è innanzitutto un Io egoista, che vuole vivere e riprodursi: l’Io viene prima di ogni altra cosa.

L’individuo è materia vivente
Com’è fatto questo Io? È un Io composito, in cui è possibile distinguere due nature: una di tipo animale, o pulsionale o biologica, l’altra di tipo francamente umano, o razionale o culturale. Secondo la sua natura animale, l’individuo è innanzitutto una complessa struttura biologica, fatta di atomi, molecole, cellule, tessuti, organi e apparati, che lavorano in armonia ai fini della sopravvivenza e della riproduzione dell’individuo stesso. Secondo Laborit, gli esseri viventi sono costituiti di materia, come gli oggetti inanimati: “la sola cosa che distingue gli organismi viventi dalla materia inanimata da cui sono costituiti è la struttura” (1985: 27). Oggi l’uomo è in grado di fecondare una cellula in vitro e generare un essere vivente in laboratorio. Sono note le principali tappe della ricerca in questo campo: nel 1996, nel laboratorio Roslin Institute di Edimburgo, nasce il primo animale clonato, la pecora Dolly; nel 2000 viene decifrato il 99% dei tre miliardi di lettere che costituiscono il genoma umano; nel 2007 Londra autorizza la creazione di «embrioni chimera» (DNA umano in ovuli di mucca) per poter produrre cellule staminali da utilizzare nella lotta a malattie come l’Alzheimer e il Parkinson; dello stesso anno (ottobre 2007) la diffusione della notizia che il genetista Craig Venter e i suoi collaboratori hanno creato un piccolo cromosoma artificiale mediante un procedimento di sintesi. Possiamo parlare dell’inizio di una svolta, che ci consente di passare dalla capacità di leggere il codice genetico a quella di descriverlo. Forse un giorno sarà anche possibile costruire artificialmente, mattone per mattone, i singoli geni e l’intero DNA di un individuo semplice, come un batterio o un moscerino, allo stesso modo in cui si assemblano le singole parti di un motore o di un orologio. Quando ciò dovesse accadere avremmo la prova certa che la vita è generata dalla materia e potremo affermare con certezza che l’individuo è materia vivente ossia una semplice macchina fisico-chimica di tipo animale.

L’individuo è materia che si riproduce
Così come nessun motore al mondo può conservare illimitatamente la sua funzione (vita), perché le sue parti tendono ad usurarsi nel tempo, allo stesso modo anche l’individuo umano invecchia e muore, e sarebbe destinato ad un’irrimediabile estinzione se non avesse la capacità di riprodursi. Sta qui la principale differenza tra un individuo vivente e il motore di un’automobile: il primo si riproduce, il secondo no. Ma perché avviene la riproduzione? La riproduzione dev’essere intesa, essenzialmente, come la risposta della natura all’inevitabilità della morte o come un tentativo di conservare la vita nonostante la morte. Riprodursi significa annullare l’effetto nichilista della morte, iniziando un nuovo progetto di vita. L’individuo è materia vivente che si riproduce.

L’individuo è l’unità fondamentale della specie
Anche la singola cellula è in grado di vivere e riprodursi. Che differenza c’è allora fra cellula e individuo? La singola cellula di un qualsiasi animale, di una formica, di un cane o di un uomo, non è capace di vivere autonomamente al di fuori del corpo di quella formica, di quel cane o di quell’uomo e non ha alcuna somiglianza con una formica, un cane o un uomo. Essa può vivere e riprodursi solo in laboratorio. E lo stesso dicasi degli organi e degli apparati. Non la singola cellula, non il singolo organo o apparato, dunque, ma solo l’individuo nella sua interezza possiede un’autonomia vitale e le sembianze che lo rendono biologicamente classificabile come membro di una certa specie. Ecco perché, come dice la stessa parola (individuo = che non si può ulteriormente dividere, o ridurre, senza perdere le proprie caratteristiche e uscire dalla sfera umana), dobbiamo ammettere che non la singola parte, bensì l’individuo nella sua interezza è l’unità fondamentale della specie.

L’individuo umano è un animale come gli altri
L’individuo umano è un animale come gli altri, ma è anche un crocevia di relazioni sociali, un nodo culturale, un centro di valori, un essere emotivo e razionale, una struttura psichica particolarmente evoluta. Un carattere specifico della specie umana è la socialità, ossia il bisogno degli altri, che l’individuo interpreta comportandosi in modo tale da meritare il consenso, l’approvazione e la stima dei propri simili. L’individuo non può prescindere dalla sua dimensione sociale, dalla quale dipende il suo equilibrio psichico, la sua salute mentale e, in ultima analisi, anche la sua stessa vita. Un altro carattere specifico della specie umana è l’autocoscienza, grazie alla quale l’individuo può osservare se stesso in modo distaccato e oggettivo, autovalutarsi e autogiudicarsi, compiacendosi o rammaricandosi per la sua situazione presente e facendo progetti per il suo futuro. Ne dobbiamo concludere che “Gli individui umani sono soggetti agli stessi processi di nascita, crescita, maturità e morte cui soggiacciono gli altri organismi, anche se essi soli sono coscienti del loro destino” (CLARK 1986: 13), corsivo mio.

I neonati sono uguali
Ciò che è scritto sulla faccia A della lavagna genetica cambia da un soggetto all’altro, ma è praticamente impossibile che uno stesso individuo emerga in tutti i campi. Uno può eccellere nella memoria piuttosto che nel ragionamento logico, nella musica piuttosto che nel gesto atletico, nella solidarietà piuttosto che nell’intelligenza, nella metodicità piuttosto che nella creatività, nella tecnica piuttosto che nella genialità, nella pazienza piuttosto che nel coraggio, tuttavia, ad una valutazione globale, le differenze individuali, anche se è impossibile misurarle esattamente, non sono poi molto rilevanti (valutando 1 l’individuo umano medio, possiamo ritenere ragionevole un range di normalità, che va da un minimo di 0,5 a un massimo di 2), a meno che non intervengano importanti fattori patologici o ambientali, che noi abbiamo deciso di escludere. La natura, insomma, ha fornito l’individuo di un progetto biologico tendenzialmente paritetico. Questa parità si può notare tanto più quanto più ci si avvicini all’inizio della vita dell’individuo stesso. È pressoché impossibile, infatti, valutare delle differenze rimarchevoli fra due zigoti o due embrioni o due lattanti. “Vi sono dati empirici – conferma Hinde – dai quali risulta che l’uguaglianza è dominante tra i bambini molto piccoli...” (1981: 291). È solo dopo la nascita che si potranno rilevare delle significative differenze individuali, che diventeranno sempre più evidenti con la crescita. Possiamo dunque affermare che l’individuo inizia la sua vita in condizioni di sostanziale eguaglianza con gli altri neonati.

L’individuo è un animale sociale
Ben diverso è il progetto tracciato nella faccia B della lavagna genetica, che è semplicemente abbozzato in modo molto generico e allo stato di potenza, e che dev’essere validato e confermato attraverso un processo di educazione e apprendimento, prima di diventare operativo. È come se la natura dicesse a ciascuno di noi: “ci sono tante cose che tu potrai fare nel corso della tua esistenza, ma queste cose non sono già pronte per l’uso, come avviene per gli animali più semplici: al contrario, tu dovrai apprenderle e ciò ti costerà fatica”. In pratica, le potenzialità sono simili in tutti gli individui, mentre i punti d’arrivo sono molto diversi e dipendono anche da fattori esterni: un ambiente sociale eccessivamente oppressivo e invadente imporrà un suo modello di felicità e impedirà all’individuo di crearsene uno proprio; viceversa, un ambiente sociale permissivo e non autoritario lascerà ciascuno libero di dare il significato che desidera alla propria vita. In sostanza, l’individuo può costruire il proprio progetto di vita solo con l’aiuto determinante degli altri.

L’individuo è un animale razionale
Da parte sua, l’individuo può contribuire nella costruzione del proprio Io culturale ricorrendo anche alle sue facoltà razionali. “L’uomo è una canna, la più debole nella natura; ma è una canna pensante”. Così si esprimeva Pascal (1990: 347). La canna si può piegare e perfino spezzare ma, finché rimane il pensiero, c’è l’uomo. Il pensiero è un’entità metafisica, un soffio, uno spirito, un’onda magnetica, una luce, un bagliore, e, in qualsiasi altro modo vogliamo definirlo, esso rimane qualcosa di difficilmente imprigionabile. Il pensiero è libero per definizione. Un libero pensiero forte consente all’individuo di resistere alle pressioni ambientali e di essere protagonista del proprio destino, nonostante tutto, mentre un libero pensiero debole lascia l’individuo in balìa di fattori esterni, come una barca senza timone, che rimane alla mercé del moto capriccioso delle acque e dei venti, del tutto incapace di seguire una propria rotta. Ebbene, l’essenza dell’individuo umano va individuata proprio nel libero pensiero e, quando questo manca, l’uomo scompare e rimane solo la canna, agitata dal vento. Possiamo dire che l’individuo è un soggetto libero e pensante o, come preferivano gli antichi, un animale razionale.

L’individuo è un animale utilitarista
Ma che cosa significa, precisamente, essere un animale razionale? Significa che “Il comportamento umano può essere concepito come una sequenza di azioni che conducono ad un determinato scopo” (Eibl-Eibesfeldt 1993: 692). “Un concetto base della psicologia individuale – scrive Adler – è quello secondo cui tutte le manifestazioni della vita psichica devono essere considerate come preparazione al raggiungimento di un fine ultimo” (1994: 87). “Senza uno scopo – prosegue Adler – non potremmo infatti né pensare né agire” (1994: 136). I fini possono essere grandi o piccoli, nobili o meschini, di natura genetica o culturale, ma sono essi che fissano la rotta e indirizzano la condotta dell’individuo incanalandola in una sequenza di azioni armoniche, non caotiche e comprensibili da osservatori esterni, in una parola, razionali. È così evidente che “gli atti dell’uomo sono governati da scopi” (RUSSELL 1976: 33), che non occorre indugiare oltre sull’argomento. Ebbene, questi «scopi» sono i nostri bisogni culturali, ossia le motivazioni che muovono la nostra volontà in una certa direzione e inducono la nostra ragione ad elaborare le strategie comportamentali più opportune in vista dell’obiettivo prefissato. L’azione razionale è “quella che produce con maggior probabilità le migliori conseguenze possibili”, secondo quello che è noto come principio della massimizzazione dell’utilità attesa (GIROTTO 1994: 165). Diciamo allora che l’individuo è un soggetto che agisce razionalmente in vista di scopi, ossia è un animale utilitarista.

Essere utilitaristi
Che cosa significa essere animali utilitaristi? Lo dice la stessa parola: fare il proprio «utile». Ma che cos’è «utile» per l’uomo? Essenzialmente due cose: soddisfare i propri bisogni primari e portare a compimento, nel modo più gratificante possibile, il proprio progetto di vita, qualunque esso sia. Più concretamente, significa conquistare partner sessuali ai fini riproduttivi e mettersi nelle condizioni socialmente più favorevoli per esercitare la propria volontà di potenza. Secondo la teoria della decisione, l’azione razionale prevede le migliori conseguenze possibili per il soggetto che agisce, tenuto conto delle sue informazioni disponibili e delle circostanze in cui opera, anche se ciò non significa successo garantito. A volte, infatti, le conseguenze di un’azione sortiscono effetti diversi da quelli desiderati. Non solo: i desideri degli individui possono cambiare, come pure i loro scopi e le loro strategie, soprattutto se appartengono a culture diverse. Va attribuito al Funzionalismo il merito di aver notato come, in società molto lontane fra loro nel tempo e nello spazio, gli uomini hanno risposto agli stessi bisogni in modi dissimili. È stato così dimostrato che non c’è una sola risposta allo stesso bisogno. Quello che è certo, tuttavia, è che, in ogni caso, “l’individuo sceglie un’alternativa per ottenere un risultato” (MARTELLI 1999: 39), seguendo una “sua” logica, che potrebbe non essere condivisa da altri. Il fatto, poi, che qualcuno voglia tentare di ordinare, in una scala di valori, le diverse logiche è un’altra questione.

L’individuo è un animale oeconomicus
Gli economisti classici partono dalla convinzione “che ciascun individuo si comporti in modo da realizzare il proprio interesse” (CASAROSA 1998: 716). Ciò vuol dire che ciascuno persegue i propri obiettivi, che sono ordinati secondo una scala di valore presunto. Ma, a questo proposito, è stato fatto notare quello che venne chiamato il «paradosso del valore»: se si guarda al valore intrinseco di un bene, l’aria dovrebbe averne enormemente di più dell’oro, mentre in pratica succede il contrario. Apparentemente gli uomini non ricercano l’aria, ma l’oro; non competono per la prima, ma per il secondo. A questo paradosso ha risposto Ricardo con la sua «teoria del valore-lavoro», la quale sostiene che il valore di un bene dipende dalla quantità di lavoro necessario per produrlo. Non solo, dicono gli economisti marginalisti, come Marshall e Pareto, il valore di un bene dipende anche dalla sua «utilità marginale». Cosa vuol dire utilità marginale? Il valore di un bene è rapportato alla sua disponibilità: un bene è prezioso se è carente; lo stesso bene diventa di scarso valore se è abbondante. Un individuo apprezzerà che venga aumentato di un punto un bene che per lui è scarso, mentre resterà indifferente se verrà aumentato un bene che è già abbondante. L’utilità marginale è dunque non il bene in sè, ma quella parte di esso che incide effettivamente sull’utilità personale del soggetto. È su questa utilità che si fonda il commercio e lo scambio “i prezzi relativi dei beni (ovvero, che è lo stesso, i valori di scambio dei beni) sono determinati dalle utilità marginali che i beni stessi hanno per tutti gli individui” (CASAROSA 1998: 718). L’individuo è un animale oeconomicus.

L’individuo è un animale competitivo
Mentre nello stato di natura, la competitività emerge tipicamente in condizioni di scarsità, nelle società evolute la situazione cambia. In quanto animale razionale e utilitarista, infatti, l’individuo è in grado di comprendere l’importanza della società e di elaborare strategie idonee a mettersi in posizione di preminenza sugli altri, in modo da poterli, in qualche modo, usare per i propri fini. È un po’ quello che succede nel mondo animale, dove la creazione di una gerarchia sociale stabilisce l’ordine di accesso alle risorse, secondo il livello occupato nella scala gerarchica. È l’esperienza che insegna a ciascuno di noi che potremo attuare meglio il nostro progetto di vita se saremo in grado di elevarci sui nostri simili in modo da imporci su di loro. Ed è qui che s’inserisce la «volontà di potenza» tanto cara ad Alfred Adler. Attraverso la volontà di potenza, ogni individuo si adopera per scalare la gerachia sociale e affermare se stesso sugli altri.

L’aggressività
Precisiamo che in questa sede escludiamo l’a. predatoria e ci riferiamo unicamente all’aggressività intraspecifica, nella quale comprendiamo “tutti quei moduli di comportamento mediante i quali l’uomo afferma i propri interessi contro la resistenza di altri individui, acquistando così dominanza” (Eibl-Eibesfeldt 1991: 78).
L’a. è di comune osservazione nel mondo animale e può contare su una letteratura sterminata, da cui si evince che l’uomo non fa eccezione. “Gruppi di uomini l’un contro l’altro armati appaiono in disegni paleolitici di 20.000 anni fa” (Silvestri 1994: 453). “Divale (1972) ha studiato l’attività bellica di 99 gruppi locali di popoli cacciatori e raccoglitori appartenenti a 37 culture diverse. Al tempo dell’indagine 68 di questi gruppi, distribuiti in 31 culture, praticavano ancora la guerra; 20 gruppi, appartenenti a 5 culture, avevano smesso di combattere da 25-30 anni e i rimanenti 11 da una data ancora più remota; non risultava che fra i gruppi esaminati ve ne fosse qualcuno che non avesse mai guerreggiato” (da Eibl-Eibesfeldt 1991: 83).
L’a. viene solitamente ricondotta alla «territorialità», ovverosia al forte legame che gli uomini hanno da sempre instaurato col territorio da cui traggono le risorse per vivere. Ebbene, secondo alcuni studi, “tutti i popoli cacciatori e raccoglitori posseggono territori [… tanto da poter] concludere che la territorialità è una costante antropologica” (Eibl-Eibesfeldt 1991: 83).
Si suppone che l’a. svolga un ruolo funzionale alla sopravvivenza e alla riproduzione, in quanto dovrebbe favorire l’accesso alle risorse e ai partner sessuali. Secondo Eibl-Eibesfeldt, l’a. “è un mezzo per acquisire e difendere risorse e per superare le resistenze che si oppongono ai comportamenti orientati verso uno scopo: può quindi servire a tener lontano dal partner sessuale un rivale, a conquistare o a conservare un territorio, a raggiungere una posizione di dominanza” (1991: 82).
In pressoché tutte le specie sociali si assiste a lotte intestine in una comunità, che si placano solo dopo che si sia stabilita una gerarchia sociale. Molto illuminanti a tal proposito sono gli studi sugli scimpanzé condotti da Franz De Waal (1984).
In molte specie animali è stato osservato un comportamento aggressivo nei confronti di soggetti che “nell’aspetto o nel comportamento si discostano dalla norma” (Eibl-Eibesfeldt 1991: 86). E anche in questo caso l’uomo non fa eccezione. Infatti, “Anche l’uomo ha la tendenza a schernire e ad aggredire coloro che appaiono diversi o che si comportano in modo anomalo” (Eibl-Eibesfeldt 1991: 86).
Per spiegare il comportamento aggressivo sono state avanzate varie teorie.
a) Teorie dell’apprendimento: l’a. è appresa.
b) Teorie della reazione: l’a. si manifesta come reazione a certe esperienze di privazione subite nella prima infanzia. È accertato che carenze sociali e affettive sofferte nell’infanzia provocano “un deficit di socializzazione che predispone l’individuo alla criminalità” (Eibl-Eibesfeldt 1991: 87).
c) Teorie della pulsione: l’a. è un impulso innato.
d) Teorie etologiche: numerosi studi hanno dimostrato l’esistenza di «stimoli-segnali», alcuni dei quali possono essere riprodotti artificialmente, che scatenano o inibiscono il comportamento aggressivo. Ricerche su bambini sordi e ciechi dalla nascita hanno dimostrato che anche in loro sono presenti le espressioni che accompagnano il comportamento aggressivo, come digrignare i denti, e poiché tali espressioni non possono essere state apprese, se ne deduce che devono essere innati. La somministrazione di ormoni (testosterone, dopamina, ecc.) modifica il comportamento aggressivo nell’animale.

L’individuo dipende dagli altri
È impossibile realizzare la propria volontà di potenza ed elevarsi sugli altri se non passando attraverso gli altri. Perfino la semplice autostima, che pure è necessaria per poter imbastire un progetto di vita appagante, richiede almeno un minimo di apprezzamento da parte degli altri. Ed ecco perché ciò che temiamo sopra ogni cosa “è l’abbandono, l’esclusione, l’essere respinti, banditi, ripudiati, abbandonati, spogliati di ciò che siamo, il vederci rifiutare ciò che vogliamo essere” (Bauman 2003: 91). In sostanza, l’individuo costruisce la propria identità sulla base del riconoscimento di altri e si smarrisce, e ricerca surrogati più o meno funzionali, ove questo riconoscimento sia del tutto manchevole. Il bisogno degli altri è alla base dei comportamenti altruistici, da cui dipende, in definitiva, la sussistenza del gruppo e della società. In altri termini, l’individuo si serve dell’altruismo per creare e conservare il sociale.

L’individuo è un animale culturale
Nel mentre si industria per il perseguimento dei propri scopi, l’uomo crea cultura. Che cos’è la cultura? È l’insieme delle idee, dei comportamenti e delle tecniche che hanno dato prova di funzionare o meno e, quindi, che è bene ripetere o che è meglio evitare; è il frutto dell’esperienza pregressa, che viene tramandata di generazione in generazione, sia in forma orale che attraverso la scrittura. Grazie alla cultura, l’uomo sa ciò che deve fare e ciò che deve evitare, se vuole vantaggiosamente realizzare il proprio progetto di vita. Secondo Cimino, “la cultura rappresenta un tramite di cui l’uomo si serve, in definitiva, per soddisfare tutti i propri bisogni” (1981:142). “Ogni cultura nel suo insieme – conferma Linton – è la risposta ai bisogni totali della società cui appartiene” (1973: 332). Ne concludiamo che l’individuo si serve della cultura allo stesso modo in cui si serve della propria ragione: per perseguire la propria utilità.

La cultura
Possiamo intendere per c. l’insieme di idee e modelli di comportamento appresi, oppure ciò che resta di un individuo (o di un gruppo di individui) dopo la loro morte e che viene recepito e valorizzato dalle generazioni successive. In realtà la c. può essere definita in molti modi. Per Bock, la cultura “comprende tutte le aspettative, le conoscenze, le credenze e le convenzioni che influenzano il comportamento dei membri di un certo gruppo umano” (BOCK 1978: 17). Per Boncinelli, “La cultura è insomma l’insieme dei saperi e dei saper fare che l’uomo è andato accumulando nei secoli e che ciascuno di noi si trova quasi automaticamente a disposizione per il solo fatto di appartenere al consorzio umano” (BONCINELLI 2000: 158).
La cultura origina dalle azioni e dal pensiero degli individui passati e viene trasmessa, come un libro stampato, agli individui presenti, i quali, a loro volta, la reinterpretano, la modificano e la trasmettono alla generazione seguente. Terza cultura, “Per terza cultura intendo l’attività di quegli scienziati che sanno dire cose nuove e interessanti sul mondo e su noi stessi; che le sanno raccontare a un pubblico vasto, diffondendo la conoscenza oltre i confini angusti dell’accademia” (BROCKMAN 1995: 7). Grazie all’attività pubblicistica di questi scienziati, l’evoluzione culturale subisce un’accelerazione.
La cultura è come un libro stampato e, come un libro, anch’essa ha un’esistenza sua propria, che può essere colta da milioni di persone e per un tempo indefinito, esercitare un’influenza su di esse, essere oggetto di studi, di controversie, e perfino di culto; può anche essere dimenticata e poi rivalutata a distanza di secoli; può, infine, essere usata per scopi diversi da quelli originari. Questo libro, che è la cultura, ha dunque un’esistenza sua propria e potrà essere letto da milioni di persone e per migliaia di anni, esercitare un’influenza su di esse, essere oggetto di studi, di controversie, e perfino di culto; potrà essere dimenticato e poi rivalutato a distanza di secoli; potrà essere usato per scopi diversi, che i suoi autori forse nemmeno immaginavano. Eppure, se ci pensiamo bene, la cultura è stata creata da menti individuali. Ora, se è vero che la cultura è un prodotto dell’individuo, dev’essere anche vero che, quando diciamo che gli individui vengono plasmati dalla cultura, stiamo affermando in realtà che essi si plasmano da se stessi di generazione in generazione.
“Per quanto peculiare e sorprendente possa essere la sua biologia, quello che veramente caratterizza l’essere umano fra tutti i viventi è la ricchezza della sua cultura e la dinamicità della sua storia culturale” (BONCINELLI 1999: 286). “L’essenza dell’evoluzione culturale è rappresentata dal fatto che per certi aspetti della sua vita un individuo non deve sempre ricominciare da zero” (BONCINELLI 1999: 286). “l’evoluzione culturale non è assolutamente una forma di evoluzione. È un’invenzione della nostra specie che non può essere paragonata a nient’altro che a se stessa” (BONCINELLI 2000: 160). Secondo Bock, “la maggior parte delle differenze veramente notevoli tra i gruppi umani è determinata culturalmente” (BOCK 1978: 18).

L’individuo crea se stesso
C’è un rapporto d’interdipendenza fra cultura e cervello, nel senso che “il cervello produce la cultura e la cultura trasforma e «produce» il cervello” (OLIVERIO 1984: 186). In altri termini, la cultura prodotta dagli individui è in grado, a sua volta, di condizionare e modificare il comportamento degli individui stessi, svolgendo quella funzione pedagogica che prima era affidata agli istinti. In questo modo, “all’evoluzione biologica l’uomo sostituisce l’evoluzione culturale” (PARISI 1987: 46), così che la cultura diviene “il primo prodotto dell’evoluzione capace di dominare l’evoluzione stessa” (JACOB 1971: 375). Ne risulta un individuo dalle due nature: da un lato egli è “un prodotto dell’evoluzione biologica” (BOCK 1978: 481), ossia di quanto è scritto sul lato A della lavagna genetica; dall’altro lato, egli è anche l’animale educabile per eccellenza, tanto da indurre Cromer ad affermare che “l’educazione è la caratteristica peculiare dell’umanità” (1996: 255). Grazie all’apprendimento l’uomo assimila cultura, che poi trasmette ad altri e, attraverso questo processo di scambio, ogni individuo struttura e plasma se stesso. Da un punto di vista biologico l’uomo è determinato dalla sua natura, ma, grazie alla cultura, egli è anche un “soggetto capace di progettarsi autonomamente” (HAUSEN 1993: 621). In definitiva, i comportamenti razionali generano cultura, la quale, a sua volta, condiziona i comportamenti razionali. Possiamo dire, allora, che l’individuo è l’unico animale capace di essere artefice del proprio destino e di creare se stesso.

L’individuo è un animale religioso per convenienza
Anche la religione è una forma di cultura e, in quanto tale, anch’essa svolge un ruolo strumentale. Anzi, è lo strumento per eccellenza, perché “gli dèi sono in grado di fare quello che gli uomini desiderano” (FEUERBACH 1994: 33). In un certo senso, per mezzo di Dio, l’uomo diventa onnipotente. Io ho seminato e desidero un raccolto abbondante, ma, dal momento che questo non dipende solo da me, prego Dio perché faccia in modo di esaudire la mia volontà. “Il desiderio è l’origine, è l’essenza stessa della religione –l’essenza degli dèi non è altro se non l’essenza del desiderio... Chi non ha desideri, non ha nemmeno dèi” (FEUERBACH 1994: 32). Possiamo, dunque, affermare che l’individuo è un animale religioso per convenienza.

L’individuo è un animale dotato di libero arbitrio
“Sebbene l'individuo sia dominato e forgiato dal proprio ambiente sociale, tuttavia egli non ne è sopraffatto” (LINTON 1973: 106). L'individualità, dunque, non viene annullata dalla socializzazione e il soggetto conserva la propria capacità critica, la propria logica razionale. L’individuo non può scegliersi né il DNA, né la famiglia, né l’ambiente in cui nascere. Egli, invece, può decidere il grado e la direzione del proprio impegno, a condizione che gli venga data l’opportunità di farlo. Saranno le libere scelte del soggetto, la sua intelligenza, la sua volontà, le sue inclinazioni, i suoi desideri e i suoi ideali, che, alla fine, daranno forma al suo progetto di vita. Partendo dal proprio potenziale biologico e dalle proprie condizioni familiari e ambientali, un individuo potrà scegliersi gli amici, il coniuge, il lavoro, la sede di residenza e quant’altro. Potrà legarsi a persone che considera simili a lui, o complementari, accompagnarsi a coloro che condividono i suoi stessi valori, la sua stessa cultura e la sua stessa visione del mondo, o a quanti lo rassicurano e lo gratificano, stimare coloro che lo stimano ed amare coloro che lo amano, mostrarsi indifferente o ostile con le persone che rispondono negativamente alle sue aspettative. Potrà fare tutto questo, oppure esattamente il contrario di questo, o qualunque altra cosa a livello intermedio. “L’uomo può superare per mezzo della cultura le sue predisposizioni innate” (Eibl-Eibesfeldt 1993: 693) e “anche apprendere a comportarsi in modo contrario alla sua natura innata” (ivi p. 698). Le sue scelte dipendono da lui. L’individuo ha la facoltà di pronunciare l’ultima parola in tema di scelte e comportamenti.

L’individuo deve costruire la propria libertà
L’individuo libero può perfino correggere e sconfessare se stesso, riformulare i propri valori e reimpostare il proprio stile di vita, e può farlo non solo in forma moderata e graduale, ma anche in forma radicale e perentoria, dando luogo a quelli che chimiamo stati di «conversione», «rinascita», «illuminazione», «colpo di fulmine», «crisi esistenziale». Lo stesso soggetto può passare da una fase di ateismo ad una di fervente zelo religioso, dall’adesione convinta ad un regime autocratico all’adesione altrettanto convinta ad un modello democratico, dalla prodigalità all’avarizia, dal pacifismo al bellicismo, dall’ottimismo al pessimismo, dalla virtù al vizio. E viceversa. L’io del giovane Napoleone, che sognava l’indipendenza della sua Corsica dai conquistatori francesi, era certamente in netto contrasto con l’io dell’imperatore Napoleone, che sognava di rinverdire i fasti dell’Impero romano d’occidente. I geni possono ben inviare i loro impulsi e l’educazione può ben esercitare il suo condizionamento, ma, grazie al libero pensiero, un individuo è in grado di indirizzare le proprie idee in modo diverso da quanto gli suggeriscono le pulsioni biologiche e l’educazione ricevuta. Ne concludiamo che l’individuo libero può elaborare autonomamente le proprie idee e cambiarle in ogni momento.

Solo l’individuo umano può essere libero
La libertà è un traguardo che solo l’uomo può raggiungere, ed è a questo proposito che si inserisce il ruolo determinante dell’apporto educativo, che, come sostiene Feyerabend, è quello di formare persone autonome e creative e promuovere lo “spirito di contraddizione” degli allievi piuttosto che reprimerlo (1984: 224). Quello che conta, infatti, prosegue lo studioso, più di ogni altra cosa per il progresso della scienza sono le “idee nuove” e la “libertà intellettuale”, qualità carenti in assoluto, anche fra gli stessi scienziati (1984: 225). Un individuo che non abbia conquistato un’autonomia di pensiero non è solo un uomo mancato, ma è anche un esempio vivente del fallimento dello Stato in quella che dovrebbe essere una sua funzione primaria: l’educazione del cittadino. Ne deriva che l’individuo può e deve aspirare all’autonomia di pensiero.

Solo la libertà fa dell’individuo un uomo
Imporre dall’esterno ad un uomo adulto delle verità assolute significa impedirli di crescere e condannarlo a restare bambino. “Il dogma è nemico della verità e degli individui. Il dogma dice: «Non pensare! Non essere una persona». I concetti racchiusi nel dogma possono comprendere idee valide e assennate, ma il dogma intrinsecamente è un male perché la sua validità viene accettata acriticamente” (HARRIS 1997: 265). Ora, la difesa di verità non dimostrabili con la ragione può avvenire solo con la forza, e l’uso della forza porta all’odio e alla distruzione. No. “Non è di un dogma che il mondo ha bisogno, ma dell’atteggiamento della ricerca scientifica...” (RUSSELL 1994: 199). Allo stesso modo, il conformismo è da ritenere un tratto umano di basso livello e non va incoraggiato. “Non c’è nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché essi ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare” (SENECA 1983: I,3). Se un individuo è capace di progettarsi autonomamente, non si vede alcuna ragione teorica valida perché non gli si debba riconoscere tale diritto e aiutarlo in tal senso. Come ha correttamente osservato Heidegger, l’«umanità» dell’uomo risiede proprio nel fatto che egli è l’unico animale che può essere ciò che progetta di essere (1986: 11). “Un individuo che non sia in grado di fare ciò non è –secondo Nozick– un individuo” (da VECA 1982: 107). Possiamo, pertanto, affermare che un individuo privato della libertà non può dare un senso alla propria vita, né essere vero uomo.

Il libero arbitrio
Una caratteristica specifica dell’individuo umano è il libero arbitrio, ossia la capacità di esprimere giudizi critici autonomi sulla realtà esterna e su se stesso, formulare idee personali, cambiare, innovare, creare, rivoluzionare, prendere decisioni e iniziative in controtendenza. Solo l’individuo può esercitare questa facoltà, che può fare di lui un genio, un ribelle, un insofferente, un anticonformista, un eccentrico, un riformatore, un leader, un profeta, un eroe, un santo, o anche un abulico, un pigro, un fannullone, un gregario, un essere insignificante, un buono a nulla, uno sfaticato, un infingardo. Senza libero arbitrio un individuo si riduce a semplice automa, non potrebbe esprimere giudizi morali, né assumersi responsabilità, e, per conseguenza, nemmeno essere considerato uomo a pieno titolo. Senza libertà non c’è umanità. La libertà, dunque, non è un optional, bensì l’essenza stessa dell’individuo umano. Senza libertà non c’è umanità.
Nessuno nasce libero. Come dire: nessuno nasce uomo. Diventare uomo è un traguardo, che si consegue attraverso un lungo percorso di formazione, che promuove l’individuo a soggetto morale e lo abilita ad assumersi responsabilità su se stesso e su altri. Secondo la concezione, ormai classica, di Kohlberg, lo sviluppo morale dell’individuo passa da uno stadio di eteronomia ad uno di autonomia. Nel primo stadio, il soggetto accetta, in maniera passiva o acritica, le regole che gli vengono imposte dall’esterno, nel secondo stadio, egli valuta criticamente ciò che apprende, prima di accettarlo e farlo proprio. È in questo passaggio dall’eteronomia all’autonomia che si acquisisce la dignità umana. Questo percorso non è automatico e richiede la partecipazione attiva e impegnata del soggetto e degli «altri». Riesman parla di persone autodirette ed eterodirette.

Autodiretto/Eterodiretto
L’autodiretto è uno che cammina con le proprie gambe, è mentalmente aperto ed elastico, tollerante e disponibile al confronto, vaglia le conoscenze alla luce del proprio giudizio critico, elabora sistemi coerenti di pensiero, non dà per scontato nulla, nemmeno le sue convinzioni più radicate, e si rimette in gioco continuamente. Il grado di autodirezione non è uguale per tutti: esso dipende dalla cultura, dalle conoscenze, dall’istruzione e dalla personalità del soggetto. Di norma l’autodiretto legge, si informa e prende in considerazione un gran numero di opinioni, soprattutto quelle che più si discostano dalla propria. Se ha una personalità mite e riservata, poco incline allo scontro e non supportata da particolari abilità oratorie e da altre caratteristiche fisiche idonee a fare di lui un leader, egli si limiterà ad agire nell’ambito discreto della propria famiglia e della propria cerchia di conoscenti oppure, se se ne sente capace, proverà a mettere per iscritto il proprio pensiero. Nel caso in cui invece disponga di una personalità forte e aggressiva, e se è dotato di quelle qualità che fanno di un uomo un leader, egli potrà mettersi alla testa di un movimento culturale innovativo e riformista, ma rimarrà comunque “strettamente legato alle proprie opinioni” (RIESMAN 1999: 310). In ogni caso, la persona autodiretta tende a costruire da sé le proprie verità ed è scarsamente dipendente dall’approvazione sociale. Tutti gli innovatori, i riformatori e i progressisti, coloro cioè che, nel bene e nel male, hanno apportato cambiamenti significativi nelle società umane, appartengono alla categoria degli autodiretti.
L’eterodiretto, invece, dipende dal giudizio altrui e, temendo le critiche, tende a far propri i valori della tradizione e ad integrarsi il più possibile con la cultura dominante e col sistema di valori vigente. Egli non ha un grande interesse ad impegnarsi nell’acquisizione di conoscenze e, se lo fa, generalmente, si limita ad uno studio scolastico, limitato a testi consigliati da un docente e possibilmente scandito da periodiche prove di esami. Riesman parla in questo caso di individuo «beninformato», intendendo per tale una persona che può anche conoscere formalmente la società in cui vive, ma non è poi in grado di elaborare creativamente le proprie nozioni. “Il «beninformato» è competente nel modo in cui il sistema scolastico e i mezzi di comunicazione di massa gli hanno insegnato ad esserlo” (RIESMAN 1999: 262). A seconda della personalità, il beninformato potrà vivere da oscuro e anonimo membro dell’informe massa popolare, oppure potrà ricoprire cariche sociali di grande prestigio nei settori dei servizi, della produzione, della politica o della religione, affermandosi come leader tradizionalista e conservatore. In ogni caso egli tenderà ad esprimersi in nome e per conto del supremo interesse del gruppo a cui appartiene e non a titolo personale.

L’individuo e il inguaggio
L’acquisizione del linguaggio simbolico è da ritenersi fondamentale per il genere umano perché sta alla base di una nuova natura: la natura culturale. Il linguaggio alfabetico inaugura la natura culturale dell’uomo, che, se non cancella, va oltre la natura biologica, la supera. A tal punto che, da qui in avanti, può essere considerato pienamente umano solo colui che è in grado di servirsi di questo strumento. “I bambini privati del linguaggio hanno poco di umano, e certamente sono anormali dal punto di vista mentale” (POPPER 1997: 33).
Sfortunatamente le prove del comportamento non si fossilizzano e, di conseguenza, non possiamo disporre di prove oggettive sull’origine del linguaggio. Il che è un vero peccato. Infatti, “Capire come il linguaggio si sia originato durante l’evoluzione sarebbe una scoperta di importanza eccezionale” (WILSON 1999: 152). In mancanza di testimonianze fossili, possiamo solo ricorrere all’immaginazione.

L’individuo e la coscienza
L’uomo è un animale cosciente di sé, dei propri bisogni, dei propri mezzi, della propria finitezza. Ma la coscienza è puro pensiero, mentre l’uomo è materiale. Com’è possibile allora che un organo materiale, poniamo il cervello, produca qualcosa di non fisico, quali sono la coscienza e il pensiero? Sin dall’antichità l’uomo ha cercato di fare luce su questo fenomeno apparentemente paradossale, trovando due possibili risposte.
La prima risposta, quella più antica e maggiormente consolidata, è alla base di quella che possiamo chiamare tradizione spirituale-dualista, la quale annovera personaggi di grande spessore, come Platone, Sant’Agostino, Cartesio e un gran numero di studiosi contemporanei, quali T. Nagel, F. Jackson, C. McGinn, H. Putnam, R. Penrose, J. Eccles, K. Popper, D. Chalmers. Per costoro la coscienza, come il pensiero, non appartengono al mondo fisico e non possono essere prodotti dalla materia e, dunque, appartengono ad un altro mondo, un mondo spirituale, religioso o meno che sia. Questa linea di pensiero ammette l’esistenza di due mondi, uno fisico e uno spirituale, e, poiché non è in grado di spiegare in termini scientifici in che modo i due mondo possano tra loro interagire, finisce per invocare il mistero. Per Colin McGinn (1991) la coscienza è un mistero impenetrabile per la scienza (in DI FRANCESCO 2000: 71). Secondo Chalmers, “La coscienza è il più grande dei misteri” (1999: XXIII) e, di fronte a tale mistero, “non c’è ragione per cui il dualismo non potrebbe essere una posizione ragionevole e appetibile” (CHALMERS 1999: 174).
Nell’ultimo secolo, grazie all’ampliarsi delle conoscenze sul sistema nervoso, ha cominciato a riprendere consistenza una tradizione di pensiero, che è sostenuta da un crescente numero di studiosi, come G. Edelman, F. Crick, M.S. Gazzaniga, I. Rosenfield, J.R. Searle, P.M. Churchland, i quali riducono il pensiero, e con esso la coscienza, ad un semplice prodotto del cervello e della materia (riduzionismo biologico), anche se non sanno spiegare esattamente il fenomeno. La chiamiamo tradizione fiscalista-monista. Così si esprime Searle: “Ritengo sia necessario abbandonare il dualismo e assumere che la coscienza è un fenomeno biologico naturale paragonabile alla crescita, alla digestione o alla secrezione della bile” (1998: 4). Il fatto che non siamo in grado di fornire una teoria scientifica della coscienza sarebbe legato alla nostra ignoranza sul funzionamento del cervello: quando disporremo di una teoria unitaria sulla neurobiologia cerebrale, allora saremo anche in grado di dipanare il mistero della coscienza (SEARLE 1998: 163-6). Non molto dissimile è la posizione di Churchland, il quale vede nella c. un fenomeno biologico che si è andato progressivamente sviluppando lungo il corso dell’evoluzione del sistema nervoso e che accomuna uomini e animali: “gli animali superiori sono coscienti tanto quanto lo siamo noi” (CHURCHLAND 1998: 289).
Secondo l’approccio monista, l’origine della coscienza è nel cervello. “Esso è il motore della nostra ragione. È la sede della nostra anima” (CHURCHLAND 1998: 342). E, se ancora oggi la c. ci appare come mistero, ciò è dovuto alla nostra ignoranza sulla biologia del cervello. Insomma, lo studio della c. non rientra nel campo della religione, ma in quello della scienza. La nostra ipotesi, nota Crick, “considera gli eventi mentali come opera delle cellule nervose” (CRICK 1994: 54). Il fatto che non siamo in grado di spiegare scientificamente la coscienza, scrive Edelman (1992), non vuol dire che si tratta di un mistero scientifico. Il fatto è che ancora non conosciamo appieno la fisiologia del nostro sistema nervoso centrale. In questo campo molti progressi devono essere ancora compiuti. Secondo Wilson, “Tutto è pronto per sferrare l’attacco al problema più importanti di quelli che la biologia non ha ancora saputo risolvere: come facciano i cento miliardi di cellule nervose del cervello a lavorare insieme, creando così la coscienza” (1999: 91). “Alla fine, quando avremo veramente compreso il funzionamento del cervello, saremo in grado di descrivere con una certa approssimazione le nostre percezioni, il nostro pensiero e il nostro comportamento” (CRICK 1994: 305). La questione dunque rimane aperta.

L’individuo può essere sovrano
Non esiste un modello di felicità valido per tutti. Questa verità è talmente evidente che non merita, credo, d’essere dimostrata. Meno ovvia è, invece, un’altra verità, che, tuttavia, ad un’attenta osservazione, dovrebbe risultare, infine, altrettanto evidente, e cioè che, se si esclude il fattore «forza», non è possibile provare con certezza la superiorità di un modello di felicità rispetto ad un altro. Non ci resta allora che riconoscere all’individuo la piena sovranità sul proprio progetto di vita. “Lo scopo della vita è l’autosviluppo – scrive Oscar Wilde. Sviluppare pienamente la nostra individualità, ecco la missione che ciascuno di noi deve compiere” (1993: 74). Ed ecco che ritorniamo al valore fondante dell’individualità. Secondo Dunn, “essere un individuo non è altro che il comune destino degli uomini” (1983: 62). Se il principale diritto di ciascuno è quello di conquistare e difendere la propria sovranità, il principale dovere degli altri è, invece, quello di rispettare e promuovere questo diritto. Consiste in ciò, in fondo, il principio dell’amore cristiano, nel volere che l’altro sia ciò che intende essere. Possiamo, dunque, affermare che ogni individuo ha il diritto/dovere di conquistare e preservare la propria sovranità e di essere se stesso.

Un tentativo di definizione globale
Alla fine di questa disamina, dobbiamo ammettere che è possibile formulare innumerevoli definizioni d’individuo, tutte ugualmente valide, ma nessuna esaustiva. Quando diciamo che l’individuo è un «homo sapiens», un «animale», un soggetto «razionale», «sociale», «culturale», «utilitarista», «autocosciente», cogliamo solo una parte di verità: l’individuo è tutte queste cose insieme, ma nessuna di esse in esclusiva. Consapevoli di questi limiti, vogliamo nondimeno provare a dare la seguente definizione, nella quale ci limitiamo a sottolineare due aspetti essenziali (l’aspetto fisico e la dimensione sociale), in assenza dei quali, a nostro avviso, dovrebbe essere ritenuto improprio parlare di «umanità»: l’individuo umano è un animale dotato di un aspetto fisico che lo rende riconoscibile come appartenente alla specie homo e di una seppur minima facoltà di stabilire un rapporto sociale, anche di tipo non verbale, coi propri simili.
In base a questa definizione, negheremo la dignità di individuo umano all’embrione (per mancanza di aspetto fisico) e al cadavere (per mancanza di dimensione sociale). Al pari del cadavere, anche i soggetti in stato vegetativo permanente (SVP), come la sfortunata giovane donna americana, Terri Schiavo, che viveva in quello stato dal 1990, hanno perso ogni dignità umana dal momento in cui ogni loro facoltà d’interazione sociale è stata compromessa in modo irrimediabile. Nel caso specifico, dopo otto anni di SVP, il di lei marito decideva di avviare la battaglia legale al fine di lasciarla morire, sostenendo che questa sarebbe stata la volontà della moglie. Solo dopo sette anni di dibattiti, si decideva che Terry poteva morire, il che avveniva il 31 marzo del 2005. Continueremo, invece, a riconoscere la dignità umana al feto, perché ha già assunto sembianze umane, agli «uomini-bestie», come Kamala, perché anch’essi conservano una sia pur ridotta attività sociale, e a persone, come il povero Piergiorgio Welby, che, pur essendo immobilizzate a letto e dipendendo dalla tecnologia medicale per sopravvivere, tuttavia, conservano la pienezza delle facoltà mentali e, con esse, la capacità di relazionarsi coi propri simili.

Il caso Eluana Englaro
Ha da poco compiuto 21 anni Eluana Englaro quando, a seguito di un incidente stradale, entra in SVP. È il 18 gennaio 1992. Il padre Beppino, sostenendo che la figlia prima dell’incidente aveva espresso la volontà che non avrebbe mai accettato di vivere in un stato vegetativo, si appella alla giustizia italiana chiedendo che venga rispettata la volontà della giovane e che si decreti la sospensione dell’alimentazione forzata. Lasciando che la ragazza si spenga. Purtroppo, però, in Italia manca una legislazione in materia e, per ciò che concerne le questioni etiche, è nettamente prevalente la chiesa cattolica romana, la quale non contempla la facoltà di interrompere l’alimentazione ai soggetti in fase terminale, nemmeno nel caso di Eluana, che da quasi 17 anni (tanti ne sono ormai trascorsi) vive in stato vegetativo e senza alcuna speranza di ritornare in salute. Stando così le cose, non dev’essere facile per la Corte di appello di Milano autorizzare l’interruzione dell’alimentazione forzata (luglio 2008), lasciando al padre l’ultima parola. La chiesa insorge condannando quello che per essa è un esecrabile atto di eutanasia e, spalleggiata da molte forze politiche e dalla stessa Regione Lombardia, riesce a bloccare l’esecuzione della sentenza giudiziaria. Eluana deve continuare ad essere trattata come oggetto, anche se il padre continua a ripetere che la ragazza non accetterebbe quelle condizioni. La questione ritorna così alla Corte di Cassazione che, il 13 novembre 2008, autorizza a staccare il tubo che impedisce ad Eluana di morire e, puntuale, si ripete il copione delle proteste della chiesa e di molti politici, ma questa volta il padre di Eluana riesce a vincere la sua battaglia e la sfortunata ragazza può finalmente porre fine alla sua infelice esistenza il 9 febbraio 2009.
Il caso appena descritto merita una breve riflessione. In un recente libro, dal titolo Il caso Eluana Englaro, Maurizio Mori, presidente della Consulta di bioetica onlus, parla di due importanti paradigmi culturali che dominano attualmente il campo della bioetica in Italia. Il primo, e più antico, è il paradigma ippocratico-ecclesiale. Esso affonda le proprie radici nella tradizione della medicina ippocratica e del cristianesimo romano e sostiene che la vita è sacra e sempre buona, e perciò l’uomo ha il dovere di preservarla, tranne casi eccezionali, come la legittima difesa o lo stato di guerra. Applicato al caso di Eluana, questo paradigma stabilisce che è moralmente riprovevole negarle «pane e acqua» e condannarla così ad una morte orribile. Il secondo, e molto più recente, paradigma, che chiamerò laico-moderno, si appella alle conquiste in tema di diritti umani degli ultimi decenni ed esige “un ampliamento dell’autonomia e dell’autodeterminazione” della persona (MORI 2008: 236). Applicato al caso di Eluana, questo secondo paradigma stabilisce che “è lecita la sospensione della terapia nutrizionale che la tiene in vita ed è lecito lasciare che Eluana si spenga” (MORI 2008: 219). Così concepita, la vicenda di Eluana rassomiglia ad un campo di battaglia dove i due paradigmi, prendendo a pretesto il caso, si sfidano non con l’obiettivo di risolvere la questione nell’interesse di Eluana, ma per la propria affermazione.
Personalmente, trovo questo quadro di uno squallore morale talmente ignobile da scuotere le coscienze e indurci a trovare un altro modo di porsi davanti ad un essere umano che si trova in stato vegetativo permanente (SVP), una «terza via», insomma, che, peraltro, non è affatto difficile da individuare e che consiste, a parer mio, nell’applicazione dello spirito del nostro ordinamento giuridico vigente. Non dobbiamo fare altro che partire dai principi bioetici del consenso informato e del testamento biologico, che, a loro volta, si muovono sulla scia dell’art. 32 della Costituzione, che recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Dunque, secondo lo spirito delle legge operante del nostro paese, Eluana ha il diritto di decidere se accettare o meno il suo SVP e l’alimentazione forzata che la tiene in vita. Purtroppo, Eluana non è in grado di esprimere alcuna volontà. Ed è questo il vero nodo del problema. Ora, di norma, quando un soggetto è incapace di intendere e di volere, lo si affida a qualcuno che possa decidere per lui. Questo principio non può non valere anche nel caso di Eluana, perché, in un modo o nell’altro, qualcuno deve decidere se mantenere o rimuovere il sondino che la conserva in vita. Sono queste le due uniche opzioni. Non ce ne sono altre. E non si può fare a meno di decidere.
Ora, partendo proprio dai diritti che la legge riconosce ad Eluana e preso atto che la ragazza non è in grado di decidere autonomamente, non dovremmo fare altro che chiederci chi sono le persone più indicate a interpretare la sua volontà e nominare un tutore che decida per lei. Affidare il destino di Eluana all’esito dello scontro campale di due paradigmi culturali si traduce in uno scontro fra poteri forti e in un atto di prevaricazione sulla volontà della ragazza, oltre che in una ingiustificata mancanza di rispetto della sua persona. Occorre, dunque, cambiare prospettiva e chiedersi: chi è più legittimato a decidere per Eluana? Sono i suoi genitori, che la conoscono e la amano meglio di ogni altro, o è un’autorità dello Stato, politica, giuridica o religiosa che sia? La vicenda di Eluana si può ridurre alla risposta che vorremo dare a questa semplice domanda, e questo è, a mio avviso, il modo più corretto di affrontarla.

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