martedì 21 luglio 2009

03. Darwin e oltre

Charles Darwin nasce a Shrewsbury in Inghilterra il 12.2.1809. All’età di 19 anni, dopo aver scartato l’idea di farsi medico, accetta di buon grado la proposta del padre di intraprendere la carriera di ecclesiastico. Ci deve pensare un po’ ma, infine, dal momento che è incline a credere “sulla verità assoluta e letterale di ogni parola della Bibbia”, conclude che “l’idea di diventare un prete di campagna” gli piace (Autobiografia). Studia per tre anni a Cambridge, ma è tempo perso, e così decide di partecipare come volontario naturalista a quello che amerà ricordare come “l’avvenimento di gran lunga più importante della mia esistenza” (Autobiografia), ossia il viaggio che il capitano Fitz-Roy si accinge a fare con la nave Beagle. Corre l’anno 1831. In quel momento Darwin può essere considerato un creazionista, che ha “come scopo quello di documentare la verità letterale della Bibbia” (STANLEY 1982: 193), anche se non lo è in modo assoluto e acritico, ed è aperto ad altre spiegazioni sull’origine della vita.

Il ceazionismo
In questo periodo la quasi totalità della gente crede nella integrale veridicità del racconto biblico e dà per scontato che poche migliaia di anni prima Dio ha creato in rapida successione prima la terra, poi le singole specie animali, ciascuna destinata a riprodursi immutabilmente nel tempo, e infine l’uomo, l’unico dotato di anima, ragione, libero arbitrio e discernimento morale, al quale ha affidato la terra, con tutte le sue risorse, perché se ne serva a volontà e vi regni come signore incontrastato. Secondo questa concezione, che è sostenuta non solo da teologi, come Sant’Agostino o Tommaso d’Aquino, ma anche da filosofi, come Cartesio e Kant, e da scienziati, come Georges Cuvier (1769-1832) e Charles Lyell (1797-1875), le specie animali esistono dal momento della creazione e, anche se qualcuna può essersi estinta, di certo non ne possono sorgere di nuove. E’ la teoria del cosiddetto fissismo, all’interno della quale Linneo (1707-78) pubblica la sua grandiosa tassonomia.

Il fissismo
Il fissismo, tuttavia, non sembra in grado di spiegare alcuni fenomeni di ordinaria osservazione e ciò induce alcuni studiosi particolarmente perspicaci ad esplorare nuove vie. Uno di questi è il naturalista francese Buffon (1707-88), il quale intuisce che le specie non sono immutabili e che derivano da un’unica forma di vita, constata, al pari di Malthus, che le specie si moltiplicano ad un ritmo più rapido rispetto alle risorse alimentari, comprende che i fossili appartengono a specie estinte, ha dunque gli elementi che gli consentirebbero di elaborare il concetto di evoluzione, ma invano. Buffon è sulla buona strada, ma non riesce ad anticipare Darwin (EDEY, JOHANSON 1990: 22-3). Evidentemente, il condizionamento culturale, la forza della tradizione e l’opinione dominante ostacola il formarsi di idee nuove perfino nelle menti più acute. Che le specie cambiano col passare del tempo lo comprende anche Lamark (1744-1829), il quale, inoltre, è disposto ad ammettere che l’ordine naturale procede dal semplice al complesso, ma nemmeno lui riesce a concepire il processo evolutivo, limitandosi a sostenere che le singole parti degli organismi possono modificarsi con l’uso e le modifiche così ottenute trasmettersi alla discendenza. Anche Lamark, dunque, è un fissista.

L’enigma dei fossili
Già, ma come spiegare l’esistenza dei fossili, che sembrano testimoniare l’esistenza di animali e piante vissuti in epoche remote e oggi scomparsi? Una risposta a questo interrogativo proviene dalla cosiddetta “teoria delle catastrofi”, secondo la quale, di tanto in tanto, una catastrofe (l’ultima potrebbe coincidere col diluvio universale) distrugge la vita esistente, che poi Dio provvede a ricreare. Pur avendo il pregio di essere compatibile con la versione biblica, questa teoria non trova riscontro nelle osservazioni empiriche e non viene accettata da tutti. Al suo posto, Hutton J. (1728-99) propone un’altra teoria, chiamata “attualismo” o “gradualismo”, secondo la quale i cambiamenti della crosta terrestre avvengono lentamente e gradualmente sotto l’azione di forze che possiamo vedere agire “attualmente”, come le acque, il vento, le eruzioni vulcaniche, lo scioglimento dei ghiacciai e i cambiamenti climatici. Insomma, “ciò che accade attualmente sulla supericie terrestre non è diverso da quanto è sempre accaduto nel passato. I processi geologici sono sempre gli stessi, e il motivo per cui non li cogliamo è il semplice fatto che essi sono troppo lenti per essere osservati nel breve arco della vita umana” (EDEY, JOHANSON 1990: 29). Questa teoria appare più coerente con i dati empirici e viene condivisa da altri scienziati, come Lyell, mentre il catastrofismo riesce a sopravvivere soprattutto grazie a Cuvier, che lo riprende e lo fa proprio. Né Lyell, né Cuvier riescono a cogliere le prove dell’evoluzionismo, che pure sono davanti ai loro occhi, e rimangono fedeli al fissimo, nonostante le schiaccianti prove contrario a suo carico, dimostrando un’ottusità che sorprende per chi ha fama di essere molto intelligente, ma, ancora una volta, i pregiudizi culturali mettono i paraocchi anche agli scienziati più insigni, “i quali, sposato un certo ordine di idee, costruiscono su di esso carriera e reputazione” (EDEY, JOHANSON 1990: 39).

La teoria di Darwin
Nel 1837 Darwin si sposa e si comporta da buon marito e buon padre di famiglia, anche se la sua passione principale è, e rimarrà per tutta la vita, l’amore per la scienza e la ricerca, che può essere proficuamente riversato sulla grande quantità di appunti, da lui stesso raccolti nel corso delle sue osservazioni durante i cinque anni del viaggio sul Beagle, che aspettano solo di essere elaborati e interpretati. Nel 1838 Darwin legge il Saggio sul principio di popolazione di Malthus, che affronta il tema della povertà delle masse. Secondo l’economista inglese, la povertà è un fenomeno del tutto fisiologico e naturale, originato dal fatto che ogni specie vivente, si riproduce ad un ritmo superiore a quello consentito dai mezzi di sussistenza e ciò implica che, in un modo o nell’altro, un certo numero di individui venga eliminato. La tesi di Malthus, che resterà sullo sfondo in tutte le successive riflessioni scientifiche di Darwin, illumina immediatamente lo studioso e lo convince che tutte le specie viventi, uomo compreso, devono essere sottoposte ad una medesima legge, la quale, col mutare delle condizioni ambientali, seleziona gli individui più adatti a sopravvivere ed elimina gli altri. Il risultato finale sarà che, col passare del tempo, alcune specie spariranno mentre altre si affermeranno. Per quel che riguarda il tipo di evoluzione delle specie, Darwin s’ispira a Lyell e ritiene che anche nel mondo animale e vegetale i cambiamenti avvengano gradualmente e impercettibilmente.
Darwin studia, elabora e tace. Egli è un uomo prudente e non gli va di divulgare le sue idee, almeno finché non abbia raccolto una quantità di prove tale da assicurargli una solida difesa di fronte alle prevedibili critiche che gli pioverebbero da ogni parte. Diffonderà, dunque, la teoria solo quando essa sarà inattaccabile. Ma egli non è il solo a condurre indagini sull’evoluzione delle specie e così avviene che un altro naturalista, un certo A.R. Wallace, giunge alle sue medesime conclusioni. Temendo di essere preceduto da questi, Darwin rompe ogni indugio e, nel 1859, decide di dare alla stampa L’origine delle specie per selezione naturale, dove si legge che, “siccome nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza” (1859: 236). “Grazie a questa lotta per la vita, qualsiasi variazione, anche se lieve, qualunque ne sia l’origine, purché risulti in qualsiasi grado utile ad un individuo appartenente a qualsiasi specie […], contribuirà alla conservazione di quell’individuo e, in genere, sarà ereditata dai suoi discendenti” (DARWIN 1859: 234). Ciò sta a significare che le specie viventi non sono fisse, come si pensa, ma mutevoli e derivano da “progenitori comuni” (DARWIN 1859: 497).
L’opera va a ruba, ma le critiche non si fanno attendere. Esse provengono non solo da parte di uomini di chiesa, come il vescovo di Oxford, Samuel Wilberforce, ma anche da parte di eminenti studiosi laici, come Adam Sedgwick, Claude Bernard, Richard Owen e Jean Louis Agassiz. Da più parti Darwin, che pure è molto stimato come uomo e professionista dai suoi colleghi, è accusato di propalare una teoria non scientifica. I principali elementi di critica consistono nella scarsità dei reperti fossili e nell’impossibilità di verificare in laboratorio la trasformazione di una specie in un’altra. Darwin, che è un tipo tranquillo, scarsamente dotato di vis polemica e poco incline ai dibattiti pubblici, cerca in ogni modo di evitare lo scontro. A dargli man forte è lo scienziato Thomas Henry Huxley (1825-96), che scende in lizza al suo fianco, ma l’impresa non è facile nemmeno per lui, ed è una fortuna che nell’Origine Darwin abbia deliberatamente evitato la scottante questione dell’evoluzione umana!
Anche se nella sua teoria si limita ad affermare che, all’interno delle specie animali, sopravvivono solo i migliori, Darwin è convinto che la struttura e il comportamento dell’organismo umano ricalcano quelli di ogni altro mammifero e sono sottoposti alle stesse leggi. “Tutti hanno i medesimi sensi, le intuizioni e le sensazioni, le stesse passioni, affezioni ed emozioni, anche le più complesse, come la gelosia, il sospetto, l’emulazione, la gratitudine e la magnanimità; praticano l’inganno e sono vendicativi; talora sono soggetti al ridicolo e hanno anche il senso dell’umorismo; provano meraviglia e curiosità; possiedono le stesse facoltà di imitazione, attenzione, decisione, scelta, memoria, immaginazione, associazione di idee, e la ragione, anche se a livelli molto diversi” (DARWIN 1871: 589). Perfino sotto il profilo mentale, la differenza tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto grande sia, è solamente “di grado e non di genere” (DARWIN 1871: 622). Anche l’uomo tende a riprodursi più rapidamente di quanto le risorse naturali consentano, tanto da rendere inevitabile la competizione per la sopravvivenza. Ed è proprio qui che entra in azione la selezione naturale. “Poiché tutti gli animali tendono a moltiplicarsi al di là dei loro mezzi di sussistenza, ciò deve essere accaduto anche per i progenitori dell’uomo; questo avrebbe inevitabilmente portato alla lotta per l’esistenza e alla selezione naturale” (DARWIN 1871: 577).
Se dal punto di vista fisico e mentale l’homo sapiens non mostra una netta superiorità rispetto ai membri di altre specie, com’è riuscito, allora, a surclassare, dominare e soggiogare tutte le specie viventi? A Darwin non sfugge l’importanza della socialità. Egli sa che, già molto prima di inventare la scrittura, il selvaggio era “influenzato al massimo grado dai desideri, dall’approvazione e dal biasimo dei suoi simili” (DARWIN 1871: 610). La socialità, in aggiunta all’intelligenza simbolica, ha reso possibile all’uomo lo sviluppo di vincoli culturali e la creazione di tribù, villaggi, città e nazioni. All’interno di questi gruppi estesi e complessi gli individui maggiormente dotati, più coraggiosi, intraprendenti e creativi, fungono da modello per tutti gli altri e, all’occorrenza, organizzano la risposta sociale nei momenti difficili. “Le tribù che comprendevano un maggior numero di uomini così dotati, potevano aumentare di numero e soppiantare altre tribù” (DARWIN 1871: 623-4). La conclusione è evidente: è l’ampiamento del gruppo sociale che conferisce all’uomo il primato nella piramide zoologica.

Effetti rivoluzionari del darwinismo
Nel corso della sua vita, Darwin vede con soddisfazione che la sua teoria è accettata da un numero crescente di naturalisti, anche se non tutti lo fanno pienamente e senza riserve. Particolarmente difficile da comprendere è come possa il pensiero astratto essere prodotto da una struttura materiale, qual è il cervello, e molti scienziati, compreso l’insigne St George Jackson Mivart, e perfino lo stesso Wallace, inclinano a credere che esso prenda origine da un’entità spirituale, si chiami essa anima o ragione, da ricondurre, in ultima istanza, ad un dio. Se ne inferisce che l’uomo, il solo essere razionale, il solo fatto ad immagine di Dio, dev’essere tenuto ben distinto dagli altri animali. Di opinione diversa è Darwin, il quale, seguendo ormai fedelmente la logica della sua teoria, è disposto a giungere anche a conclusioni che non è in grado di provare, come quella che vede nel pensiero un prodotto del cervello, allo stesso modo in cui la bile è un prodotto del fegato.
L’interpretazione darwiniana dell’uomo e del mondo entra in urto anche con la millenaria cultura greco-romana. A partire da Aristotele, infatti, l’uomo occidentale ama credere che tutto in natura accada per uno scopo, che il sole sorge per dare luce e calore, la pioggia cade per far crescere le piante, e via dicendo, e ciò poi fornirà lo spunto ai cristiani per chiamare in causa Dio e spiegare il mondo. “Il grande contributo di Darwin al dibattito sulla religione […] consistette nella demolizione finale dell’idea che la natura sia il prodotto di un disegno intelligente” (RACHELS 1996: 132). Per Darwin esistono solo variazioni casuali e, tra queste, solo quelle che conferiscono un vantaggio vengono conservate e trasmesse alle generazioni successive. Non c’è alcun disegno e alcuna finalità. E Dio? Forse non esiste alcun Dio, ma anche se esistesse, egli si comporta come se non ci fosse.
Quella di Darwin è, dunque, una concezione materialistica e monistica, che rischia di avere un effetto dirompente sulla millenaria tradizione cristiana e sul consolidato sentire comune della gente. Essa, infatti, mette in discussione verità ritenute assodate e sacrosante e induce a guardare il mondo con occhi nuovi e a reinterpretare il ruolo dell’uomo sulla terra. In realtà la teoria darwiniana non è di per sé incompatibile con l’idea di Dio, perché la selezione naturale potrebbe proprio essere “il mezzo scelto da Dio per creare l’uomo” (RACHELS 1996: 6). Dio cioè avrebbe potuto benissimo servirsi delle leggi dell’evoluzione per creare, indirettamente, l’uomo e consentire che dalla materia prendesse origine il pensiero, la cultura e l’anima. Chi mai avrebbe potuto impedirglielo? Ma un Dio siffatto è un Dio lontano, che non segue passo passo la sua creatura, limitandosi a gettarla nella lotta per la sopravvivenza e ad affidarla alla suprema legge del più forte. Non è più il Dio buono e misericordioso e nemmeno il padre amorevole descritto dal cristianesimo, quanto piuttosto una figura così remota ed evanescente da risultare quasi non necessaria.

Conferme della teoria e suoi sviluppi
Una teoria così rivoluzionaria e così fortemente avversata sarebbe stata votata ad una miserevole fine se non fosse stata corroborata da ulteriori acquisizioni scientifiche. Una prima importante conferma alla teroria darwiniana proviene dalle leggi della genetica, che vengono scoperte da Gregor Johann Mendel (1822-84), un oscuro monaco agostiniano, intorno al 1865, mentre Darwin è ancora in vita. Esse però rimarranno ignorate dalle comunità scientifiche per 35 anni, fino a quando tre studiosi (Hugo de Vries, Carl Correns e Erich von Tschermak) non le riscopriranno autonomamente (1900).
Fondendo i princìpi della teoria evoluzionistica con le scoperte della genetica, alcuni studiosi, come il biologo tedesco August Weismann (1834-1914) e il botanico olandese Hugo De Vries (1848-1935), danno origine al neodarwinismo o “sintesi moderna”, il cui principale apporto consiste nella definitiva confutazione dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, che era stata sostenuta da Lamarck e che lo stesso Darwin non aveva mai completamente escluso. L’unica selezione possibile è dunque quella genetica.
Nel 1953 due scienziati, l’inglese F. Crick e lo statunitense J.D. Watson, scoprendo la struttura a doppia elica del DNA, svelano il mistero biologico della vita e gettano le basi per ulteriori interessanti acquisizioni scientifiche. In particolare la scoperta rende possibile svelare dove e in che modo opera la selezione naturale. E’ la prova definitiva che Darwin aveva ragione, anche se ciò non basterà a porre fine alle polemiche. Da questo momento la teoria dell’evoluzione naturale appare definita nelle sue verità fondamentali, che possiamo così riassumere: gli organismi viventi, che sono portatori di DNA leggermente diversi, si trovano a competere per l’accesso a risorse limitate, e solo coloro che si riproducono riescono a tramandare i propri geni. La scoperta del DNA, in aggiunta ai ritrovamenti fossili, consente di giungere ad una sintesi teorica unitaria e coerente: dimostrando l’esistenza di specie oggi estinte, i fossili permettono di collocare l’origine dell’uomo in tempi assai più remoti rispetto a quelli calcolati dai creazionisti, mentre il DNA fornisce la chiave di lettura dei meccanismi riproduttivi e di fenomeni, quali la lotta per le risorse e la sopravvivenza del più adatto. Il DNA diventa, inoltre, un fertile terreno di studi e di ulteriori scoperte, che porteranno alla nascita di nuove branche del sapere: una di queste è la biologia molecolare, un’altra è la sociobiologia.

La biologia molecolare
Nel 1967 due chimici americani, V. Sarich e A. Wilson, mettono a punto una metodica in grado di determinare, con sufficiente precisione, le somiglianze e le differenze fra le varie specie animali, attraverso l’analisi delle catene del DNA e di talune molecole, quali l’albumina e la transferrina. “Due specie che discendono da un antenato comune iniziano la loro storia evolutiva avendo lo stesso DNA: man mano che passano le generazioni nel DNA si vanno accumulando cambiamenti casuali. Quanto più a lungo le specie si sono evolute separatamente, tanto più sarà differente il loro DNA. Se si misurano le differenze accumulate nei rispettivi DNA si avrà un indice del tempo durante il quale le due specie hanno avuto storie evolutive distinte...” (GRIBBIN, CHERFAS 1984: 121). “Basta quindi che lo studioso dell’evoluzione misuri le differenze del DNA –o direttamente, leggendo il DNA stesso, o indirettamente, esaminando le proteine– e sia in grado di collegare la differenza di struttura a una datazione nota. In questo modo è possibile non solo ricostruire il cammino evolutivo percorso da una certa specie, ma anche stimare con buona approssimazione il momento in cui essa è nata” (GRIBBIN, CHERFAS 1984: 47). Nei confronti della paleontologia classica, quest’orologio molecolare ha il vantaggio di una maggiore precisione, senza avere lo svantaggio della scarsità dei reperti fossili. Grazie all’orologio molecolare, è stato possibile stabilire, tra l’altro, che uomo, gorilla e scimpanzè discendono da un antenato comune, che “le tre specie si sono differenziate, per seguire ciascuna un cammino evolutivo diverso, meno di quattro milioni e mezzo di anni fa” (1984: 277-8), fornendo così un’ulteriore straordinaria prova a favore del darwinismo.

La sociobiologia
Un’altra branca di derivazione darwiniana è la sociobiologia. Fino agli anni Sessanta è prevalente, presso gli scienziati, l’opinione secondo la quale la selezione naturale agisce sulla specie. Questa ipotesi, che è sostenuta da insigni etologi, come Lorenz e Tinbergen, è stata messa in discussione proprio dalla sociobiologia e da studiosi come Hamilton e Wilson, secondo i quali il processo selettivo agisce solo sull’individuo attraverso il suo DNA o i suoi geni, e non sulla specie. Insomma, “sono gli individui che si riproducono, non le specie, e perciò è su di essi che agisce la selezione naturale” (FOLEY 1999: 168).
Alcuni sociobiologi contemporanei, come George C. Williams e Richard Dawkins, si spingono oltre l’individuo e sostengono che l’organismo umano è solo una “macchina per la sopravvivenza dei suoi geni” (BROCKMAN 1995: 63) e l’individuo altro non sarebbe che “un mezzo attraverso cui i geni si riproducono e si diffondono” (OLIVERIO 1984: 11). In estrema sintesi, la sociobiologia tenta di spiegare il comportamento dell’individuo a partire dai suoi geni, i veri protagonisti del comportamento individuale, i quali costituiscono la voce filogenetica che parla dentro di noi e determina i nostri atteggiamenti, i nostri impulsi e le nostre tendenze. In ogni caso, “La conservazione della specie è un effetto collaterale di strategie egoistiche” (KOTRSCHAL 2000: 21).

Il problema dell’altruismo
E allora, come si spiega l’altruismo? Se gli individui sono spinti dai propri geni a competere per la sopravvivenza e la riproduzione, dovremmo aspettarci che essi si comportino egoisticamente, e ciò trova puntuale conferma nell’esperienza, la quale ci insegna che gli egoisti hanno maggiori probabilità di sopravvivere e lasciare una discendenza più numerosa rispetto agli altruisti. Insomma, “gli animali, al pari degli esseri umani, non agiscono affatto in vista del sommo bene della specie, bensì in modo prettamente egoistico” (KOTRSCHAL 2000: 119). Com’è possibile, dunque, che un individuo sacrifichi se stesso per il bene di un altro?
Presso gli animali inferiori si conosce un’unica forma di altruismo, il cosiddetto altruismo parentale, soprattutto quello che i genitori rivolgono nei confronti dei figli, e si tratta evidentemente di un comportamento istintivo, selezionato dall’evoluzione come vantaggioso e trasmesso ereditariamente. Perché è vantaggioso? Supponiamo che esistano in natura due tipi di animali, la Madre Altruista, che tende a prendersi cura dei figli, a nutrirli e a difenderli, anche a costo di correre qualche rischio per sé, e la Madre Egoista, che pensa esclusivamente al proprio vantaggio trascurando i figli. Sarà sicuramente la prima ad lasciare un maggior numero di discendenti e quindi a diffondere maggiormente i propri geni. L’altruismo nei confronti di non consanguinei si osserva solo presso le specie superiori, in particolare nell’uomo, e può essere interpretato come un comportamento appreso e legato alle esperienze quotidiane. Solo gli animali che dispongono di un’intelligenza sufficiente, infatti, sono in grado di capire che l’aiuto da loro prestato ad un estraneo probabilmente verrà ricambiato, ed è su questa consapevolezza che si fonda la morale. “La moralità umana è il prodotto non solo degli istinti sociali, ma degli istinti sociali combinati con l’intelligenza” (RACHELS 1996: 189), e, quando un soggetto non rispetta le norme della morale condivisa e pensa solo al suo tornaconto, non solo egli viene disapprovato dagli altri, ma si costituisce in lui la consapevolezza di un comportamento riprovevole, la qual cosa noi chiamiamo coscienza.
Favorendo i propri parenti, rispondono i sociobiologi, l’individuo non fa altro che favorire la diffusione dei propri geni e, dunque, se stesso. “L’altruismo è quindi una conseguenza dell’egoismo dei geni” (FANTINI 1988: 1187). Viene così spiegato il comportamento altruistico, che per Darwin risultava incomprensibile. L’individuo, dunque, è capace di comportamenti altruistici, ma solo a vantaggio di soggetti che condividono maggiormente il suo patrimonio genetico, ossia i parenti prossimi. In un mio precedente lavoro ho affermato che, oltre all’altruismo parentale, che è naturale o biologico, ossia legato a stimoli ormonali, c’è anche un altruismo culturale, che è frutto di apprendimento e di libera scelta da parte dell’uomo in vista di qualche fine, mentre l’esistenza di un altruismo disinteressato non è provata (MUNI 1997).

L’anti-darwinismo
Proprio a causa della sua portata rivoluzionaria, la teoria darwiniana è stata fatta oggetto di verifiche, studi e ricerche di ogni tipo, non solo da parte di chi, credendoci, ha cercato ulteriori prove a suo sostegno, ma anche, e soprattutto, da parte di chi, non intendendo accettarla, si è impegnato in ogni modo per confutarla. L’anti-darwinismo copre tutto il secolo XX e giunge fino ai nostri giorni, facendo registrare diversi tentativi di delegittimazione. Ancora oggi, sia in Italia che nel resto del mondo occidentale cristiano, agguerrite frange di fondamentalisti non si rassegnano a vedere contestati quei princìpi religiosi che essi insegnano ai propri bambini.
Nel tentativo di conciliare la teoria darwiniana con i dogmi religiosi, alcuni naturalisti (per es. SERMONTI 1999) hanno ipotizzato che l’evoluzione consisterebbe nello svolgimento di un disegno prestabilito, il cosiddetto evoluzionismo creazionistico o creazionismo scientifico, ma non hanno convinto i più. “Negli ultimi venticinque anni – scrive Ageno –, messe da parte le citazioni dai libri sacri, i Creazionisti hanno sviluppato una loro «scienza» alternativa, una pseudoscienza in pieno accordo con la narrazione biblica, il cosiddetto «Creazionismo scientifico» in contrapposizione polemica con la scienza moderna. Prendendo le mosse da un loro modello teorico dell’origine della vita, hanno inteso smentire e confutare punto per punto la scienza ufficiale, in particolare tutte le affermazioni della biologia evolutiva, non riuscendo tuttavia a mettere insieme altro che un ammasso di grossolani errori e imbrogli, che possono trarre in inganno solo i più sprovveduti...” (1986: 18). Secondo Montalenti, è del tutto chiaro che “siffatte teorie non sono teorie scientifiche” (1977: 12). “Gli argomenti utilizzati dai moderni creazionisti –conferma Stanley– sono citazioni bibliche, non prove raccolte direttamente in natura” (1982: 200).
La polemica sul darwinismo non si è ancora placata, soprattutto per la tenace resistenza di molti cristiani, che continuano a difendere la loro visione del mondo e non intendono rinunciare al creazionismo e all’idea di un Dio-Padre, ma le prove accumulate a favore dell’evoluzionismo sono ormai così numerose e schiaccianti da convincere la quasi totalità degli studiosi, che hanno la mente sgombra da pregiudizi religiosi. Il risultato è che oggi la teoria darwiniana è “quasi universalmente considerata un dato di fatto” (CERVELLA 2005: 479). “In particolare va tenuto conto del fallimento di tutti i tentativi di falsificazione (in senso popperiano) che sono stati intrapresi, dato che in quasi nessun altro campo delle scienze naturali si è indagato così tanto e con tale costanza come è stato fatto nella teoria evoluzionistica per opera di una schiera così nutrita di ricercatori […]. La teoria evoluzionistica è l’unico sistema naturale che possa spiegare senza contraddizioni non solamente il nostro divenire evolutivo, bensì anche il nostro divenire ontogenetico, nonché la nostra presente esistenza, ivi compreso il nostro comportamento” (KOTRSCHAL 2000: 286). Paolo Legrenzi non ha dubbi: “Oggi sappiamo che Darwin aveva ragione” (2002: 80). Gli fa eco Staguhn: “Quella che in origine era solo teoria, oggi è certezza e viene messa in dubbio solo da alcuni fanatici religiosi” (2004: 84). Sulla stessa linea si colloca Daniel C. Dennett: “Se si potesse dare l’oscar della migliore idea mai avuta, lo darei a Darwin, più che a Newton o a Einstein. […] L’idea di Darwin è trionfante, e se lo merita” (in BROCKMAN 1995: 169). “Il concetto generale di evoluzione non solo ha resistito ai tentativi fatti per negarlo, ma ha acquistato forza attraverso nuovi sviluppi” (STANLEY 1982: 197).

Il darwinismo sociale
Anche una teoria inappuntabile può essere manipolata per secondi fini e travisata. Tra le degenereazioni del darwinismo, vanno ricordate certe indebite applicazioni dei princìpi evoluzionistici in campo etico e sociale. Darwin aveva detto che gli individui più adatti sopravvivono a scapito di altri che soccombono, ma non aveva mai sostenuto che una specie sia in assoluto superiore ad un’altra; si era piuttosto limitato ad affermare che ciascuna specie è adatta a vivere nel suo particolare contesto. Applicati in campo sociale, tuttavia, i princìpi della selezione naturale portano ad affermare che anche nelle relazioni fra individui umani si stabilisce una competizione, che porta all’affermazione del “migliore”. Se la razza bianca prevale su quella nera o gialla, essa è “migliore”, se i germanici prevalgono nel mondo, essi sono i “migliori”, se invece prevalgono i nipponici o gli statunitensi, allora i “migliori” sono questi ultimi. Chi vince è il “migliore”. In pratica, è la consacrazione del principio di forza: il più forte è sempre il migliore sotto ogni punto di vista, anche morale.
È a questo punto che entra in scena il concetto di meme, che rappresenta l’analogo culturale del “gene”. Memi sono i valori culturali che entrano tra loro in rapporto e competono, allo stesso modo in cui competono i geni, e, anche in questo caso, il meme che si afferma è il migliore e il più buono. Così, se la cultura capitalistica occidentale oggi detta legge nel mondo, ciò significa che il capitalismo rappresenta il meglio fra tutte le alternative possibili nel pianeta. Si comprende bene allora perché il darwinismo sociale sia stato chiamato in causa per legittimare ogni tipo di modello culturale, purché dominante, e giustificare governi di ogni tipo, e perfino politiche razziali. Secondo questa logica, che è sostenuta, per esempio, da Herbert Spencer, i vincitori, i ricchi, i re, gli aristocratici e, in generale, le classi dominanti, proprio perché dominanti, debbono essere ritenute “migliori”, e dunque preferibili moralmente. La tesi di Spencer è stata confutata dal filosofo inglese G.E. Moore, che ha parlato di fallacia naturalistica. Moore ha notato che l’etica non coincide con ciò che è, ma con ciò che dovrebbe essere; essa appartiene al campo del simbolico, non del reale, è una costruzione culturale, non un elemento naturale. Se non ci fosse la mente umana non ci sarebbe etica. “La fallacia naturalistica consiste pertanto nell’errore di confondere ciò che dovrebbe essere con ciò che è” (RACHELS 1996: 81). Dal fatto che la razza bianca o il capitalismo siano oggi dominanti, non deriva il principio etico che essi siano anche i migliori.

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